Il caso Djokovic è stato un “doppio fallo” collettivo

La cronaca e il commento di 48 ore surreali che hanno visto Novak Djokovic ricevere un'esenzione medica per andare in Australia ed essere rimbalzato indietro all'arrivo in aeroporto.

Breve storia triste – o grottesca, o surreale, o sceglietelo voi l’aggettivo più adatto: il 4 gennaio 2022, Novak Djokovic annuncia su Instagram, probabilmente in un eccesso di onnipotenza e di arroganza, che andrà a giocare gli Australian Open nonostante non si sia vaccinato contro il coronavirus perché ha ricevuto un’esenzione medica ad hoc. 26 ore e un paio di viaggi in aereo dopo, il governo australiano ci ripensa, smentisce sia la Federazione interna che la doppia commissione che ha autorizzato il serbo e “intrappola” Nole in aeroporto, requisendogli il cellulare, mettendolo sotto sorveglianza giudiziaria e, infine, deliberando che il numero 1 al mondo non è esente dal rispettare le regole e deve tornare a casa. Attenzione, però, perché Djokovic ha presentato ricorso e la corte di Melbourne ha deciso di prendersi un weekend per studiare meglio il caso e, se possibile, per scrivere una nuova puntata di una telenovela per cui francamente non esistono altre parole se non “imbarazzante”.

Imbarazzante, come imbarazzanti sono stati tutti i protagonisti, dal primo all’ultimo.

Imbarazzante è stato Novak Djokovic che forse ha letto un po’ troppe volte “La fattoria degli animali” di Orwell e ha pensato non soltanto di poter essere “un po’ più uguale rispetto agli altri”, ma di poterlo anche dire anche agli altri senza che ci fossero conseguenze da affrontare. D’altronde, però, Nole è soltanto lo specchio di una quotidianità che noi, “i normali”, che crediamo nelle regole, che rispettiamo le regole e che sappiamo che senza regole non esiste una società civile, ci troviamo ad affrontare neanche poi così raramente. Djokovic è il “raccomandato”, è la persona che salta la fila al bar o al ristorante, che si guadagna privilegi che non merita grazie alle amicizie, che occupa una scrivania senza avere le competenze necessarie per gestire i doveri che derivano dal proprio lavoro. Nulla di strano. Anzi, psicologicamente siamo tutti un po’ più indignati, perché ci immedesimiamo, perché abbiamo avuto anche noi qualcuno che ci ha scavalcato senza meritarselo – e che magari è stato anche consapevole di aver imbrogliato e che finge di essere contrito, ma che in realtà non si vergogna neanche un po’.

Nole, però, ha provato ad aggirare le regole perché qualcuno glielo ha permesso. Quel qualcuno si chiama Tennis Australia, nella figura di Craig Tiley, direttore degli Australian Open, che avrà sperato che lo share e i ricavi economici fossero più forti di tutto. I parametri per ricevere un’esenzione medica che permetta di entrare in Australia senza essere vaccinati sono tanto stringenti, quanto cristallini. Di seguito l’elenco in questione: avere una patologia cardiaca o polmonare incompatibile con il siero contro il Covid-19; avere avuto una reazione avversa a una componente del vaccino; avere subito un intervento chirurgico negli ultimi sei mesi o aver contratto l’infezione da coronavirus sempre negli ultimi sei mesi. Che Djokovic non rientrasse in nessuna di queste quattro opzioni è stato confermato nella conferenza stampa durante la quale le autorità australiane hanno rivelato che il serbo ha fallito nel produrre documentazione medica aggiuntiva rispetto ai dati presentati alle due board che gli avevano garantito l’autorizzazione a entrare nel Paese. Perché quindi Nole si è sentito sicuro a sufficienza da imbarcarsi su un aereo, volare per 26 ore e arrivare a Melbourne? Chi gli ha detto che non avrebbe avuto problemi a entrare in Australia? Chi è stato protagonista di un simile errore di giudizio?

Errore di giudizio che sembra impossibile non abbia commesso anche lo stesso governo australiano che oggi si indigna, ma che sapeva che il Djoko-gate era prossimo a esplodere più o meno da novembre. Dove erano il Primo Ministro, Scott Morrison e il Ministro dello Sport, Richard Colbeck nelle settimane in cui Djokovic rispondeva “sì, no, forse, non lo so” a chi gli chiedeva novità sulla partecipazione agli Australian Open? Perché nessuno di loro ha richiesto alla commissione medica di visionare il fascicolo “Nole” prima che venisse dato il “placet”? Come è possibile che entrambi siano stati inconsapevoli tutto il tempo?

Forse, una storia così grottesca va semplicemente ridotta a un unico termine: responsabilità. La responsabilità che Djokovic non si è preso di non ricevere il vaccino – scelta sbagliata per chi scrive, ma che potrebbe essere condivisibile da qualcuno che legge (spero di no) – e di rinunciare allo Slam numero 21 che evidentemente per lui val bene perdere il rispetto di chiunque. La responsabilità che Tennis Australia non si è preso di dire “sì, perché sei più speciale di altri e a noi non importa se questo è ingiusto”. La responsabilità che il governo centrale non si è preso di rispondere: “no, non siamo d’accordo e tu, Nole, non sei esente da regole”. Responsabilità che a questo punto non si deve pretendere dai colleghi di Djokovic, per i quali il tennis non è intrattenimento, ma lavoro, un lavoro che obbliga a presentarsi in campo anche quando effettivamente si è stati vittime di un’ingiustizia. Responsabilità che, oggi, per Medvedev e soci vuol dire non lasciarsi irretire da un capriccio chiamato “boicottaggio”, rimanere imperturbabili, essere fieri di se stessi e rimandare ogni discorso a fine torneo, quando si vedrà la differenza tra il campione e il fenomeno.

Però, se persino un amico di Nole come Alexander Zverev, che non è esattamente famoso per le proprie dichiarazioni politically correct, ha ammesso imbarazzato di non poter mai criticarlo, ma anche di «non avere elementi sufficienti per difenderlo», forse questa volta Djokovic ha davvero commesso un enorme doppio fallo.