Il desiderio realizzato del gesuita proibito

È una fra le più singolari figure della cultura cattolica del secolo scorso, geologo e paleontologo di fama mondiale, dalla folgorante spiritualità, ma le cui teorie avevano attirato qualche diffidenza da parte della Chiesa. Un anno prima aveva confidato a un amico: "Vorrei morire il giorno della Risurrezione".

Aveva confidato un anno prima a un amico: “Vorrei morire il giorno della Risurrezione”. Possiamo dire che fu esaudito. Colpito da un infarto, Pierre Teilhard de Chardin, gesuita francese, tornò alla casa del Padre alla sera della Domenica di Pasqua, sessanta anni fa, il 10 aprile del 1955, a 64 anni. È una fra le più singolari figure della cultura cattolica del secolo scorso, geologo e paleontologo di fama mondiale, dalla folgorante spiritualità, ma le cui teorie avevano attirato qualche diffidenza da parte della Chiesa. Nelle sue opere – tutte apparse postume – si fece sostenitore di una coraggiosa e controversa interpretazione spirituale del darwinismo, in una prospettiva di “evoluzione finalista” per cui la creazione era destinata a culminare nel “punto Omega” identificato nel Cristo. Fondamentale, per capire chi fosse Teilhard, è la lettura dell’epistolario diretto alla cugina Marguerite, dal titolo “Genesi di un pensiero”, contenente le sue riflessioni in cinque anni trascorsi come barelliere al fronte durante la prima guerra mondiale. Per i suoi biografi quelle lettere sono come un momento di maturazione – all’interno di una grande tragedia europea – dello scienziato verso più ampi orizzonti. Era nato nel 1981 in Auvergne da una famiglia di stretta osservanza cattolica, quarto di undici figli, ed era entrato nella Compagnia di Gesù a diciotto anni; aveva dovuto continuare gli studi in Inghilterra dopo l’espulsione dei gesuiti dalla Francia all’inizio del 1900, come conseguenza della “legge Combe” che aveva soppresso gli ordini religiosi. Dieci anni dopo è ordinato sacerdote, si laureerà in scienze naturali e nel 1915 è chiamato alle armi. Dopo il conflitto insegna, per poco tempo, geologia all’Institut Catholique, la prestigiosa università confessionale di Parigi; nel 1923 inizia la sua carriera di paleontologo (favorita in qualche modo dalla Compagnia, già in tensione per le idee eterodosse che gli si presentavano) che si dispiegherà sino al 1946, prevalentemente in Cina, dove scoprirà, nel 1929, il “Sinantropus”, a quel tempo il più antico antenato degli uomini; ma anche effettuerà spedizioni geologiche in Somalia, in Cina, in Asia. La sua fama di scienziato verrà accompagnata da quella di autore di temi spirituali (è impreciso definirlo teologo) in più di 380 scritti pubblicati, oltre numerosi testi ancora inediti. Teilhard è forse uno fra i maggiori mistici dei nostri tempi, anche se come filosofo gli è stata attribuita una grande attenzione da pensatori non soltanto cattolici. Insieme con perplessità e riserve, come quelle, molto severe, espresse da Jacques Maritain nel suo tardo libro “Il contadino della Garonna”. Il Sant’Uffizio, alcuni anni dopo la morte, ammonì sulla prudenza con la quale dovevano essere valutate le tesi del – così verrà definito dalla pubblicistica laica – “gesuita proibito”; un successivo, serio lavoro di esegesi ne ha rivalutato in sostanza l’ortodossia. Già Paolo VI in più di un’occasione lo aveva citato nei suoi discorsi; Giovanni Paolo II, nella lettera pastorale “Dono e mistero”, del 1996, nel ribadire il legame tra il sacrificio “in persona Christi” e il mistero trinitario, scrive: “Anche per offrire ‘sull’altare della terra intera il lavoro e la sofferenza del mondo’, secondo una bella espressione di Teilhard de Chardin, si compie l’Eucaristia”. Benedetto XVI, da cardinale, aveva ammesso che uno dei documenti principali del Concilio Vaticano II, la “Gaudium et Spes”, fosse stato fortemente permeato dal pensiero del gesuita. Henri de Lubac, fra i più autorevoli protagonisti del Concilio, gesuita anche lui (e più tardi cardinale), in un passo della fondamentale biografia dedicata a Teilhard, sostiene: “Uno dei suoi maggiori obiettivi è di abbattere ‘la barriera che, da quattro secoli, non aveva smesso di salire fra Ragione e Fede’, di portar rimedio alla ‘rottura’, sempre più grave dal Rinascimento in poi, fra il ‘naturalismo’ che allontana il secolo dalla Chiesa ‘e la Chiesa che anatematizza il secolo’: situazione infelice e tanto più paradossale in quanto Scienza e Rivelazione gli sembra non possano ‘sussistere entrambi se non nel movimento che le porta, l’una e l’altra, all’incontro’”. Chi lo conobbe lo descrive come un uomo di grande pazienza, capace di interrompere un lavoro scientifico impegnativo per ascoltare chi gli chiedesse un consiglio, un aiuto, una consolazione. Diceva: “Non si sa mai…”.