Primo Piano
Il giornalista è uno “strillone di Dio”
La nuova mission de L'Osservatore Romano. Intervista esclusiva al nuovo direttore, di origini cosentine, il prof. Andrea Monda in visita a Cosenza.
Il nuovo direttore de L’Osservatore Romano, Andrea Monda, ha fatto tappa a Cosenza per incontrare la Città, far visita all’Arcivescovo Francesco Nolè, abbracciare gli amici e trascorrere qualche giorno di festa con i parenti prima di tuffarsi completamente nella direzione del prestigioso quotidiano della Santa Sede. Monda è tornato nella Città dei Bruzi ad una sola settimana dalla nomina fatta da Papa Francesco per due motivi, “uno molto candido perché in questi giorni – dice – sono più libero ed una volta tornato a Roma sarà più difficile allontanarmi dal Vaticano; il secondo motivo più personale e umano: perché per affrontare questa nuova sfida ho bisogno di ricaricarmi qui dove sono le mie radici. Il passato nasce dal futuro. Quando davanti a te c’è un futuro che ti viene incontro, il tuo cuore e la tua mente non possono fare altro che ricordare altre cose. Allora il passato resuscita grazie al futuro”. Il professore Monda laureato in Giurisprudenza a La Sapienza, per diciotto anni ha insegnato religione a Roma, ma prima aveva lavorato per altri 11 anni come legale nel settore amministrativo di una banca. Ha poi studiato Scienze Religiose alla Gregoriana scoprendo la vocazione di docente nelle scuole. Scrittore e saggista, lo scorso anno insieme ad alcuni alunni, ha scritto le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo e di recente ha pubblicato il volume “Raccontare Dio oggi”. Il 30 dicembre a Palazzo dei Bruzi, sede del governo della Città di Cosenza, ha parlato agli amici evidenziando il suo “forte legame” con la nostra terra. Sulle pagine del nostro settimanale Parola di Vita abbiamo ospitato sue interviste; questa volta lo abbiamo incontrato nella sua nuova veste di direttore de L’Osservatore Romano.
Professore Monda come nasce questo forte legame con la nostra città?
Ho un legame molto forte con la città di Cosenza perché sono figlio di una cosentina, Marilù Misasi, e poi sono anche sposato con Vivì Rendace, anche lei cosentina. Ho tantissimi affetti, sia della famiglia di origine sia della mia famiglia, che mi legano a questa terra. Ogni volta che vengo qui sono contentissimo. È una città che ho sempre frequentato soprattutto nei periodi di festa e nelle ferie, perché per lavoro vivo a Roma. Questa nuova esperienza che mi si sta aprendo davanti mi riporta in qualche modo alla mie radici, dove prendere la forza. Mi riporta proprio qui a Cosenza.
Questa volta è tornato nella Città dei Bruzi da direttore de L’Osservatore Romano. Con quale spirito prenderà servizio nei prossimi giorni nella redazione vaticana in via del Pellegrino?
Lo spirito è quello dell’abbandono alla volontà di Dio. L’obiettivo è quello di farsi prossimi e un po’ forestieri. L’immagine è quella dei discepoli di Emmaus, che camminano lungo la strada commentando i fatti del giorno. Il fatto del giorno è la morte di Gesù. Lui mentre si avvicina ai due discepoli gli dà una chiave di lettura dicendo: voi sapete la cronaca ma forse non avete colto il significato e il senso profondo di questo evento che è la venuta del Messia. E allora ho pensato che L’Osservatore Romano, o un giornalista che voglia esercitare uno sguardo cattolico sul reale, deve essere prima di tutto un compagno di strada, così come fa Gesù con i discepoli, cioè farsi prossimo ma al tempo stesso essere forestiero; infatti i due discepoli dicono a lui: solo tu sei così forestiero da non sapere le cose accadute? Ecco ci vuole uno sguardo anche forestiero, uno sguardo altro, uno sguardo che dall’alto vede le cose e nota l’opera di Dio nella storia degli uomini. Mi auguro di esercitare in questi anni, che mi sono stati dati dal Santo Padre, in qualità di direttore de L’Osservatore Romano uno sguardo che si faccia vicino ma anche prossimo e forestiero, nel senso di alzare in qualche modo il livello, guardare le cose sub specie aeternitatis, dal punto di vista dell’eternità. È una grande sfida ma ce la metterò tutta.
Lei conosce molto bene gli studenti, è stato insegnante di religione per molti anni. Quali prospettive per le nuove generazioni?
Fino a qualche giorno fa ero professore, ora sono direttore e devo, voglio parlare ai giovani, sogno di coinvolgerli in questo grande progetto. Le nuove generazioni leggono poco e scrivono molto perché costretti dai social, scrivono cose molto rapide, brevi e in un italiano ridotto con quel linguaggio da “codice fiscale” stimolati ad esprimere l’emozione del momento. Vorrei che il giornale della Santa Sede diventasse un momento di approfondimento, di ascolto e mai superficiale. Non so ancora come, ma vorrei creare uno spazio, un luogo di dibattito culturale dove i giovani possano dire qualcosa. L’ho fatto per diciotto anni da professore, spero di continuarlo a fare da direttore.
Papa Francesco ha invitato gli operatori della comunicazione all’autenticità e alla centralità della persona. Quali rischi e quali sfide per i comunicatori di oggi?
Il rischio che corriamo è quello della globalizzazione e della superficialità; questa è un’espressione di padre Nicolás Pachón, precedente padre generale dei Gesuiti. Come si risponde a questa terribile tentazione della globalizzazione della superficialità? Un giornale e un quotidiano prestigioso, internazionale, storico come L’Osservatore Romano, nato nel 1861, potrà rispondere mettendosi in ascolto, in sintonia con i giovani e con tutti i suoi lettori, creando quello spazio di riflessione per cui possano riemergere le grandi domande dell’uomo che sono spesso disertate, trascurate da questa velocità che porta a quella globalizzazione della superficialità. L’uomo, ricordiamocelo, è abitato dalle grandi domande, diamogli lo spazio giusto non solo nella pagina culturale. Un giornale come quello della Santa Sede non può che scegliere di prendersi come impegno quello di creare uno spazio per un confronto generazionale e per un dibattito culturale alto.
Qual è la nuova mission de L’Osservatore Romano?
Un giornalista, un giornale, usa le parole, indica dei temi, apre dibattiti, prendendoli proprio dalle conversazioni degli uomini. Rifacendomi ancora alle parole e all’atteggiamento di Gesù che facendo il finto tondo con i discepoli di Emmaus, fa notare che sanno tutto della cronaca ma non hanno capito il significato di quell’episodio, penso che anche L’Osservatore Romano deve partire dalla cronaca ma per scavare o levare uno sguardo altro che ti fa vedere, ti mette la luce là dove non avevi mai pensato prima, magari da sempre sotto gli occhi ma che non hai mai notato. Un grande poeta del novecento, Eliot, definisce la Chiesa: la straniera. Questo è il paradosso della Chiesa che è estranea e al tempo stesso è dentro la storia degli uomini; certe volte si impolvera pure con i diversi accadimenti degli uomini, è sempre impregnata della storia dell’umanità ma al tempo stesso rimane straniera, forestiera, rimane altra come qualcosa che viene da fuori, e questo Le permette di dare e dire una parola di sapienza. Siamo talmente immersi nella realtà che ci sfugge e per questo dobbiamo essere un po’ anfibi, pesci che vivono in due mondi, hanno due vite, i cristiani lo sono da sempre… Bisogna essere un po’ pesci fuor d’acqua. Ho la percezione, e spero di non essere troppo presuntuoso, che il Papa scegliendo me ha scelto un pesce fuor d’acqua. Ancora non sto capendo nulla di quello che sta accadendo nella mia vita. Sono stato proiettato dentro un mondo particolarissimo, affascinante, che è il Vaticano ma soprattutto la Chiesa universale. Sono stupito, vorrei mantenere sempre questa ingenuità dello stupore. Diceva Chesterton “Il mondo non morirà mai di fame per la mancanza di meraviglie, quanto per la mancanza di meraviglia”. Senza il seme della meraviglia il mondo è finito, è morto e non ce ne siamo nemmeno accorti. Allora bisogna mantenere vive le persone. Il direttore di un giornale deve destare il senso della meraviglia nel cuore degli uomini, ogni giorno, per mantenerli vivi.
Cosa può dire agli operatori cattolici dell’informazione e della comunicazione?
Noi possiamo e dobbiamo essere sempre degli avamposti di missione. La Chiesa con la comunicazione ha un rapporto intrinseco; la Chiesa è comunicazione. Noi abbiamo un messaggio da portare, una buona notizia da annunciare, in mezzo alle tante notizie che girano nel mondo e che spesso sono cattive. Questo non ci deve spaventare. Papa Benedetto XVI nel giorno in cui è stato eletto Pontefice ha detto: mi consola il fatto che il Signore sa rendere fruttuoso lavorare con strumenti insufficienti. Siamo tutti un po’ inadeguati, però ci mettiamo a servizio. Abbiamo una grande notizia da portare al mondo e lo possiamo fare con tutti i mezzi e la tecnologia a disposizione, questo non ci deve mettere paura ma anzi incoraggiare. Da cattolico posso dire che la nostra fede ha molto a che fare con il giornalismo. Se uno mi dovesse chiedere chi è un cattolico direi, nel gergo giornalistico, che è uno strillone di Dio. Il cristiano ha una notizia da portare, è una sorta di altoparlante, ecco perché “strillone di Dio”, che deve comunicare al mondo la buona novella, sono convinto che la comunicazione è fondamentale per la Chiesa.
Papa Francesco ha voluto una riforma epocale del modo di comunicare della Chiesa…
Il Santo Padre ha voluto la riforma e l’integrazione di tutti i sistemi di comunicazione della Santa Sede ma anche la mission di portare buone notizie, raccontare il bene e non solo il terrificante. Le cattive notizie sono solo una parzialissima rappresentazione della realtà. Il giornalista cattolico non può assecondare questa diffusione di negatività! Qui sta il terreno di prova. C’è una bellissima catechesi dell’8 dicembre del 2009 di Papa Benedetto XVI, quasi la carta di identità per ogni giornalista, dice che nella città vive tanta gente semplice, comune, oscura, e ogni tanto qualcuno viene preso e sbattuto sui riflettori e dato in pasto alla gente. Lui parla di un nuovo inquinamento, oltre a quello atmosferico, che è l’avvelenamento del clima con questa brutalità e violenza a causa dei mezzi di comunicazione. Forse noi dobbiamo riprendere a guardare con uno sguardo nuovo, dobbiamo avere lo sguardo di Maria che ama, e ama l’uomo anche nelle sue miserie.
L’Osservatore Romano può essere segno e volto di una Chiesa in uscita?
Penso che un quotidiano internazionale in uscita vuol dire che deve uscire innanzitutto dalla autoreferenzialità dei mezzi di comunicazione. Famosi anchorman e grandi giornalisti, parlano tra di loro, non come servitori. La comunicazione è un servizio, oggi spesso viene interpretato dai protagonisti della comunicazione come un potere che dialoga con altri poteri alla pari per mettere in difficoltà l’altro. Il popolo in tutto questo dove sta? Giornale in uscita vuol dire prima di tutto che usciamo dall’autoreferenzialità che ci porta all’individualismo indifferente. Non dobbiamo cadere nella trappola dei mezzi di comunicazione pensando che la Chiesa coincide con il Vaticano, non è così. La Chiesa è il popolo di Dio, ma se il popolo non partecipa o se non è messa nelle condizioni di partecipare non si può dire che un giornale è della Chiesa. Questa è la nuova sfida, la nostra scommessa. Cercherò di fare di questo giornale un luogo aperto, senza porte, uno spazio per dibattiti culturali dallo sguardo alto dove soprattutto i giovani possano partecipare.