Diocesi
Il ricordo di padre Carvelli
Don Mauro vide in Lui un segno della Provvidenza per continuare la sua opera
Quando il Catechista Rurale all’inizio della sua attività fra i giovani che cominciavano a fargli gustare le gioie di una piena dedizione e lo circondavano della santa letizia della riconoscenza, dalla voce del Superiore o da altro qualsiasi incidente verrà strappato a tanto affetto e a tanto dolce lavoro per essere confinato in un posto solitario o per volontà di Dio in un letto di dolori, ma intanto avrà fatto con rassegnazione l’ubbidienza ed avrà sostenuto pazientemente la prova, allora sarà stato 1’apostolo del suo Oratorio.
Questo è il primo insegnamento che chiunque voglia avviarsi a diventare missionario ardorino riceve, perché questo è l’insegnamento fondamentale che don Mauro fondatore ha consegnato alla Congregazione come sua propria fisionomia sul piano della grazia.
Ormai sentiamo tutti vicina la fioritura della Pasqua, e tutti veniamo da un cammino quaresimale, quello che ognuno ha potuto seguire con l’aiuto di Dio.
Anche quello che celebriamo oggi, è un percorso diquarantatré giorni di quaresima di sofferenza e di dolore con cui P. Carvelli ha vissuto e portato a compimento il suo discepolato dietro a don Mauro suggellando la sua vita proprio con quell’insegnamento fondamentale del Fondatore: … per volontà di Dio in un letto di dolori … sostenendo pazientemente la prova.
Ma così facendo, proprio in questi 43 giorni ha fecondato tutto quello che ha fatto e vissuto. Proprio questi 43 giorni sono stati i giorni in cui P. Carvelli ha dato il meglio del suo discepolato dietro a don Mauro.
Aveva cominciato quel discepolato a Petilia, suo paese natale, nel 1939, quando il Decano vi aveva proclamato il manifesto della sua opera, e da allora, nelle fotografie e nello spirito, era rimasto attaccato alla veste di quel sacerdote più di quanto non lo fosse a quelle della mamma.
Aveva appena 13 anni a quel tempo; aveva completato le elementari e aveva mosso i primi passi nella scuola media. Ma l’anno appresso era già a Montalto per dare corpo a quel discepolato che lo ha portato a realizzare fino in fondo tutti gli insegnamenti del Decano. Quando giunse a Montalto imperversava una tempesta di neve, ma vi giungeva perché aveva accolto positivamente un invito di don Mauro rivolto a tutti i marmocchi incontrati a Petilia: chi mi vuol seguire?
A vent’anni fece i primi voti; a 22 quelli perpetui, e a 24, in un dicembre promettente e consolante, ma sempre di passione per don Mauro, fu ordinato sacerdote nella cappella dell’arcivescovado di Cosenza: era vescovo Mons. Aniello Calcara.
Appena un anno dopo l’ordinazione, venne incaricato come assistente degli aspiranti ardorini. Ma fu una specie di parentesi: subito don Mauro lo nominò suo viceparroco; e da allora la vita di P. Carvelli si identificò con la storia della Parrocchia di Santa Maria della Serra, ed in particolare del Santuario.
Una delle sue prime fatiche nella quale collaborò con Don Mauro, nel 1954, fu la realizzazione della Peregrinatio della Madonna della Serra in tutti i paesi del circondario; pellegrinaggio che richiese intraprendenza senza misura, e che diede abbondanti consolazioni a don Mauro, oltre che entusiasmo senza fine al suo giovanissimo vice parroco.
Don Mauro cominciava a rispecchiarsi in quel giovanottino, esile, ma tutto fuoco, tutto ardore, tutto apostolato, con idee sempre nuove e che sembrava non arretrare mai davanti a nessun ostacolo.
A don Mauro sembrava proprio che la Provvidenza gli avesse voluto prolungare freschezza, forze nuove, capacità nuove, e nuova lena a quel suo entusiasmo che per ragioni d’età, di prigionia, di malattie, di sofferenza e di difficoltà, non gli veniva meno, ma gli richiedeva sempre più forze.
Don Mauro sentì di potersi dedicare totalmente alla cura delle vocazioni e al consolidamento della Congregazione, dal momento che vedeva che il suo prorompente e vulcanico viceparroco non viveva che per il santuario, al quale cominciò a lavorare giorno e notte dedicandosi a quel progetto con tutte le forze, e sognandoneuna ricostruzione totale e splendida.
I suoi sforzi culminarono nei festeggiamenti dell’agosto 1961 alla presenza del Cardinale Castaldo, Arcivescovo di Napoli.
Quello fu un avvenimento di grande risonanza, ma P. Carvelli fu ricco anche di momenti più personali con i quali visse il suo amore e quasi una sua simbiosi con questo Santuario e più di tutto con la devozione alla Madonna della Serra come quando regalò ai fedeli di Montalto un nuovo inno semplice e popolare per esprimere l’amore alla Madonna mettendo a frutto il suo antico talento musicale.
Quello musicale, vivissimo nei suoi giovani anni, non era certo l’unico di P. Carvelli; chi gli è stato vicino ha avuto modo di scoprirne tanti, soprattutto la vivacità inventiva; e sembrava che, per lui, le ore del giorno fossero più di ventiquattro perché riusciva a mettere in cantiere più cose contemporaneamente.
Cominciò a dar vita nel 1954 al Centro di Formazione Professionale. Compenetrato di ogni visione di don Mauro, come lui sentiva che accanto all’attenzione per le anime bisognava tener desta una grande attenzione per la vita sociale e per il mondo del lavoro, per poter dare ai giovani speranza e opportunità da investire.
In questo campo, per trentasei anni ha formato giovani al lavoro impostando coordinate locali, nazionali ed europee tali che molti imprenditori del nord scendevano a scegliersi e prenotarsi i giovani del centro di P. Carvelli.
Non c’era novità tecnologica che gli sfuggisse, né campo d’azione nuovo che s’aprisse senza che lui subito non lo percorresse.
E c’era anche un altro campo desolato e desolante che lo attirava perché aveva già attirato don Mauro: quello del disadattamento, come allora si definiva.
Le case famiglia hanno preso questo nome tra le mura del Dora Bianco dove pure vennero messe le radici per le Associazioni Nazionali di questo tipo. Era il 1965, io non ero ancora sacerdote e già P. Carvelli esplorava orizzonti che ancora oggi rimangono banco di prova per tutte le organizzazioni caritative e sociali. Fu la prima in Calabria, e divenne una sorpresa per tutto quello che si faceva in campo nazionale.
Intanto su suggerimento del nostro Arcivescovo Mons. Enea Selis, P. Carvelli istituì un centro audiovisivo al quale con P. Portella demmo il nome di MARANATHA. Nacque Radio Maranathà che sfociò poi in CAM-Teletrè.
Un altro vescovo, Mons. Trabalzini lo volle su un nuovo fronte divenuto a quei tempi caldissimo: la sopravvivenza delle scuole materne cattoliche, di cui divenne presidente nazionale fino al 1988.
All’interno dell’Episcopato Calabro fu membro del Brutium e membro del Facite. Non negava energia e collaborazione a nessuno: sentiva sempre di doversi spendere per tutto.
Intanto nel volgere del tempo, la Provvidenza voleva che P. Carvelli cominciasse a spendere quanto aveva accumulato di esperienza, di chiesa, di saggezza, per la Congregazione. Anche in questa area così interna agli ardorini, così propria, così intima ma così aperta alla chiesa universale e al mondo, P. Carvelli fu chiamato a dare tutto di se stesso riproponendosi con tutta la carica vulcanica che gli era propria.
Finora, siamo nel 1986, dalla morte del Fondatore, tutti gli ardorini si erano riconosciuti nella persona di P. Furgiuele: in lui la fedeltà alla vita religiosa, alla preghiera, all’impegno per la santità, non avevano incrinature; in lui risuonava continuamente l’eco della vita del Fondatore. La sua guida durò sedici anni. Poi le leggi canoniche imposero un adeguamento nuovo e nel VII° capitolo generale, nel 1986, fu eletto Superiore Generale P. Carvelli. Incarico che il successivo capitolo generale, l’VIII°, gli confermò fino al 1998.
Nel 1988, due anni dopo la prima elezione, lasciò l’ufficio di Parroco a P. Battista Magurno.P. Carvelli era stato vice parroco con il Decano per 18 anni. Esattamente altri diciotto anni fu parroco titolare. Furono 36 anni di lavoro e di apostolato ininterrotto; dopodichési dedicò totalmente al governo della Congregazione.
Il suo primo pensiero fu quello di celebrare il 1° centenario della nascita del fondatore:“Don Muro 88” non fu solo uno slogan, ma furono studi, iniziative e traguardi nuovi per la Congregazione. Fu anche partecipazione alla messa mattutina del Papa Giovanni Paolo II° e concelebrazione di quasi tutti i confratelli con lui nella cappella privata del Papa.
E già, durante il generalato di P. Furgiuele, con Padre Vizzari, aveva cominciato a muovere le acque per iniziare i primi passi della causa di canonizzazione di don Mauro.
Il 18 Novembre 1988 aprì la casa e la Missione in Colombia, e l’anno dopo ottenne dalla Congregazione dei Religiosi l’approvazione delle costituzioni.
Ma già quattro anni prima, Giovanni Paolo II° aveva benedetto una sua ardente iniziativa che aveva le sue radici nell’animo e nei desideri del Decano, che da sempre aveva sognato di mantenere saldo il legame degli emigrati di Montalto con la Madonna della Serra in qualunque angolo delmondo si fossero trovati. E l’iniziativa era quella di regalare una statua della Madonna della Serra a tutti i gruppi di emigrati montaltesi.P. Carvelli realizzò il sogno del Decano. Incaricò il maestro Alfredo De Munno,valente nel ridurre il legno a fattezze care al cuore e alla fede; e ben due statue della Madonna della Serra raggiunsero gli emigrati Montaltesi a Toronto prima,nel 1984, e in Argentina subito dopo.
E a proposito della Madonna della Serra, P. Carvelli ebbe a versare lagrime di doloreil 1996, quando il prezioso simulacro venne trafugato. Quelle lagrime divennero poi di gioia quando la Madonna fu ritrovata e in un contesto di gioia inenarrabile la statua, il 10 febbraio 1996, ritornò a riempire della sua presenza questo santuario a lei dedicato.
Quando poi l’età, la salute, la vita cominciarono a risentire degli anni e del logoramento, P. Carvelli si diede una nuova stagione di interessi e di lavoro: sentiva che tutto quello che aveva accumulato nel cuore, nella fede, nei progetti e nelle speranze doveva essere consegnato e trasmesso, doveva essere seminato nella terra nuova che le giovani generazioni venivano man mano apportando alla Congregazione.
E non solo: bisognava alimentare e documentare e dare corpo a tutto ciò che di inespresso ancora nutriva, ma che in qualche modo aveva o toccato o intrapreso o intuito.
E si mise a scrivere e a pubblicare, perché nessuna memoria venisse perduta o cancellata. E questo lavoro occupò i suoi giorni e le sue notti senza soluzione di continuità perché cominciò ad amministrare il suo tempo secondo che le sue forze emergevano o richiedevano riposo, anche nel cuore della notte. Non era più l’orologio che gli dettava i tempi, ma l’urgenza delle considerazioni che gli sgorgavano dentro gli segnavano il susseguirsi dei suoi movimenti, specialmente quando gli chiedevano imperiosamente di essere fermate nel computer per non svanire.
Il tempo di una revisione critica di tutto il suo lavoro, sia di quello fatto che di quello in fieri, gli è mancato perché troppa era l’urgenza di dover andare avanti.
Nel tumultuoso susseguirsi di cose, però, soprattutto negli ultimi tempi, P. Carvelli ha vissuto ogni domenica un’oasi di serenità familiare con la visita che il fratello Rosario e la sua Signora, immancabilmente gli facevano. Era una ricomposizione familiare: certamente Rosario gli riassumeva i volti di tutti, fratelli sorelle e nipoti; la loro cadenza petilina,il loro andare per il mondo, i ricordi e le vicende di tutti; era un bagno salutare di affetto, un ricostituente vitale; ma forse (o certamente?) un tuffo in tutte le attività intraprese. Ché se P. Carvelli era il vulcano di idee che era, Rosario ne era il braccio e il primo realizzatore.
Comunque, P. Carvelli, l’aria di vita paesana e petilina non se la faceva mancare mai; la cercava e la ritrovava nel periodico “Il Petilino” che P. Carvelli leggeva d’un fiato e custodiva amorosamente, e non solo perché a realizzare quel giornale sono suoi familiari.
Ma l’aria più essenziale per P. Carvelli era la vita comunitaria. Naturalmente la respirò variamente a seconda delle fasi dimutazione della sua vita; ma conservò sempre momenti importanti di vita comune. Il pranzo era uno di questi, ma un pranzo più desiderato per essere con tutti, che non consumato; più una apparizione che uno stare.Per quello che è vissuto, almeno in quest’ultima stagione, P. Carvelli è vissuto in forza di tutt’altro che di cibo.
Ma come a P. Carvelli non è mai mancata l’immaginazione in nessun settore della sua vita, non gli è mancata neanche nell’aspetto della vita comunitaria come nell’ultimo Natale, quando ha voluto regalare a confratelli, ad amici, e a persone varie un presepe, un presepe lavorato al traforo: era un presentimento che gli faceva distribuire un qualcosa di sé? O un supremo atto di tenerezza fraterna?
Sicuramente, tra voi presenti qui, ci sono tanti che lo hanno visto solitario nella chiesa di san Francesco, in preghiera; ad orari pressoché fissi, tanto da diventare utili per momenti certi di confessione, di colloqui, di sfoghi e di filiale e fraterna stima.
Una particolare attenzione e ammirazione P. Carvelli la riscuoteva dai nostri chierici, dai nostri confratelli più giovani; lui li ha sempre cercati; e nello stesso tempo tutti i giovani sono rimasti attratti da lui: lo hanno sempre visto come un segno, un testimone, una vita da considerare e da non poter lasciare passare inosservata.
E forse lui cercava nei loro occhi qualcuno di quei bagliori che gli avevano acceso la sua gioventù.
Era cosciente che molto egli aveva ancora da completare, che molto restava da fare, che molte pagine rimanevano ancora da scrivere e scrutava nell’orizzonte giovanile i segnali confortanti della continuità.
Egli aveva camminato per molte vie; aveva solcato mari nuovi cercando di portare sempre avanti il nome della Congregazione procurandole tutto il bene possibile.
Lui è sempre rimasto povero. E’ morto povero. E va incontro alla eternità, vestito, si può dire della sua sola veste battesimale.
P. Carvelli ha sempre raccontato di una ritrosia della sua mamma di fronte alla vocazione religiosa e sacerdotale. Una ritrosìa iniziale che la conoscenza sempre più intima di don Mauro ben presto cancellò del tutto.
Ma è il mistero di tutte le mamme dei sacerdoti: inizialmente perplesse, man mano diventano le martiri che consumano nella preghiera la vita per diventare le lampade viventi nell’anima dei loro figli sacerdoti.
Temeva di perdere un figlio: era il primo maschio dopo due figlie femmine. Un’altra figliola femmina seguirà, prima che altri due figli maschi vengano a consolidare le aspettative familiari di tradizione.
Ma è scritto nel Vangelo: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 29, 19).
Ed il Signore, come sempre, è stato di parola. Dall’Africa, dall’India, dalla Colombia, oltre che dall’Italia, ha fatto giungere fratelli che lo hanno vegliato, carezzato, curato. La loro vita accanto al suo letto è stata un preludio di eternità.
Altri angeli gli sono stati accanto, definiti da lui come colonne della sua vita.
Angeli che con la scienza e la perizia hanno sostenuto e gli hanno consentito il suo percorso quaresimale di passione. Angeli che con affetto di sorelle e di madre sono state la sua sicurezza e il suo conforto prima ancora che utile aiuto nei bisogni più semplici e più umani.
La vita di P. Carvelli è stata complessa; complessa e sorprendente anche nel suo svolgersi numerico. Oggi avrebbe compiuto 93 anni. Speravamo in questo compleanno da celebrare con un abbraccio, come sempre. Il Signore è stato più significativo nella sua scelta: gli ha fatto inaugurare l’eternità nel giorno della nascita di don Mauro, 13 aprile.
Il Signore è il mio pastore.
E’ stata la fede di P. Carvelli, è la nostra fede.
E non possiamo vedere il complesso disegno della vita di P. Carvelli se non come una distesa di pascoli erbosi in mezzo ai quali scorrono gorgogliandofonti d’acque tranquille ai quali il Signore lo ha condotto; il suo giusto cammino, un calice traboccante che gli è stato porto.
Ogni passo che il Signore gli ha concesso è stato per amore del suo nome.
Ma noi, e lo facciamo anche a nome di P. Carvelli, confessiamo la nostra fragilità; ci uniamo a San Paolo dicendo che portiamo i tesori della grazia in vasi di creta che non di rado presentano incrinature. Per questo abbiamo bisogno di perdono; per questo P. Carvelli ha bisogno della nostra preghiera e del nostro suffragio.
Ma per quanto le nostre valli siano oscure, non temiamo alcun male; per quanto sia oscura la valle della nostra morte, abbiamo fiducia nel bastone e nel vincastro del nostro Pastore, perché sono legni che ci ricordano la Croce.
P. Carvelli si è incamminato dietro a questo pastore; percorrerà con Cristo, disceso anche lui nella stessa tenebrosa valle, tutta l’attesa fino al risveglio di Pasqua.
Con il Decano ci ricordiamo di benedire sempre nella nostra vita il dolore. Benediciamo con gratitudine la vita che P. Carvelli ha dato alla Congregazione, alla Chiesa, al mondo a gloria di Dio.E più ancora ringraziamo e benediciamo Dio, ogni giorno, ogni momento: perché è eterna la sua misericordia.