Il Vangelo nella terra dei Samburu

Reportage dal Kenya insieme ai missionari colombiani di Yarumal. A distanza di due anni dal nostro incontro in redazione abbiamo avuto la possibilità di andare a conoscere i loro progetti in Kenya insieme al Mo.Ci. Cosenza

L’Africa è terra di fede e di missione

“L’annuncio di Gesù e l’andare incontro alle persone più povere”. Sono queste le due direttrici principali che da sempre spingono i missionari Colombiani di Yarumal nella loro opera di evangelizzazione nei luoghi più remoti del pianeta, portata avanti da ben 158 sacerdoti guidati dal carisma di San Francesco Saverio. Noi li abbiamo conosciuti e incontrati nella nostra redazione due anni fa, quando padre Jairo – provinciale delle missioni in Kenya – fu ospite a Radio Jobel per lanciare la campagna “Abbiamo riso per una cosa seria” accompagnato dal presidente del Mo.Ci. Cosenza Gianfranco Sangermano che sostiene alcuni loro progetti. Poi, quasi per un disegno della provvidenza, è toccato a noi fare visita alle loro missioni il mese scorso per scoprire e vedere con i nostri occhi come il Vangelo, sostenuto dalle braccia operose di questi missionari, si stia facendo strada in questi luoghi. Così la “Kerigma House” a Nairobi, la “Fattoria dei tremila amici” poco lontano dalla capitale, insieme alle missioni di Barsaloi e Lodung’okwe nella regione dei Samburu, sono diventate per alcuni giorni le “finestre” dalle quali affacciarsi per capire cosa significa e che valore ha fare missione e annunciare il Vangelo in delle terre così remote, abitate da popoli difficili da intercettare e con usanze e tradizioni distanti dal nostro “modello occidentale”.

Un viaggio – quello organizzato e fatto insieme ad alcuni volontari del Mo.Ci. Cosenza che in Kenya porta avanti diversi progetti – che ci ha fatto conoscere una terra ricca ma ancora piena di contraddizioni, nella quale vivono persone meravigliosamente accoglienti capaci di guardare con fiducia e speranza al futuro. Futuro che, per chi come noi era alla sua prima esperienza in Africa, sembra quasi irrimediabilmente compromesso dalle tante difficoltà che queste terre hanno riservato a chi le abita. Poi l’incontro con i missionari ci ha aperto gli occhi e mostrato un nuovo orizzonte. E quelle strade nella savana che sembravano impercorribili sono diventate le piste su cui far avanzare con speranza un nuovo modello di emancipazione; l’acqua, tirata su dai pozzi costruiti con fatica e risorse difficili da reperire, è diventata un oceano nel quale far fiorire nuovi germogli in una terra arida e dove l’acqua è un bene prezioso ma ancora troppo difficile da reperire. Abbiamo capito che quelle che sembravano difficoltà sono la realtà di una terra e di un popolo che cammina, sogna, spera e prega grazie anche al sostegno di missionari e associazioni perchè, come ha sottolineato papa Francesco nel suo recentissimo viaggio in Africa, difronte alla fatalità del destino “non bisogna stare a braccia conserte ma tendere la mano, come Gesù fa con noi”.

Il Vangelo nella terra dei Samburu

“La scelta della nostra congregazione è stata quella di annunciare il vangelo nelle zone più remote e alle persone maggiormente emarginate anche dagli stessi governi”. Sono queste le prime parole di padre Francisco della congregazione dei padri missionari di Yarumal, in Colombia, che da diversi anni vivono nella terra dei Samburu ,nel nord del Kenya. Una regione difficile da raggiungere – otto ore di viaggio da Nairobi fino alla città di Mararal e altre due ore e mezza di “quasi strada” a bordo di un fuoristrada nella savana per arrivare nel villaggio di Barsaloi – nella quale però i missionari colombiani (al momento due sacerdoti e due seminaristi) vivono, pregano, gioiscono e soffrono insieme a chi in questa terra vive da sempre. “La nostra casa e la chiesa sono state costruite circa settant’anni fa dai missionari italiani della Consolata. Ora appartiene alla diocesi di Mararal e noi ce ne prendiamo cura”. Così come fanno da tanti anni di un’intera comunità in buona parte nomade, sparsa tra piccoli villaggi e che in larga parte vive nelle “magnate”, capanne di fango e rami costruite da questo antico popolo. “Non è mai stato semplice intercettare le persone, anche se dopo diversi anni di missione oggi sono in tanti a fare comunità cristiana, a vivere la Chiesa, a pregare, a studiare”. 

Nonostante sia qui da meno di un anno – ma dopo diversi anni di missione in sud America e più di quattro in Africa – padre Francisco sembra avere già un quadro molto chiaro di quella che dovrà essere la sua missione di evangelizzazione tra i Samburu. “La chiave di tutto è entrare in sintonia con gli anziani del villaggio, perché sono le persone più influenti. Ma per farlo bisogna parlare il samburu, l’unica lingua che conoscono”. Infatti, il non più giovanissimo sacerdote colombiano, che si muove molto bene con diversi idiomi (compreso l’italiano), ci confessa che sta ancora imparando la loro lingua. “Non è una lingua semplice.

I due giovani seminaristi che sono con me, Faber e George così come padre Memo – che ora è negli Stati Uniti per promuovere una raccolta fondi a sostegno di alcuni nostri progetti – sono già molto bravi a parlarlo, mentre io faccio un po’ di fatica, ma continuo a studiare”. Impegno che si spinge ben oltre lo studio della lingua, perché per fare il missionario in una terra così ostica oltre al sostegno della fede serve anche il “fisico”. “Come avete già potuto constatare arrivando qui a Barsaloi, gli spostamenti non sono per nulla semplici. Succede non di rado di restare bloccati nella savana per una rottura della jeep o impantanati nel fango per ore. Insomma, si sa quando si parte, ma mai quando si arriva”. Ma nonostante la fatica negli spostamenti e la conseguente difficoltà nel reperire il materiale necessario, sono diversi i progetti messi in campo. “Tra le prime cose fatte c’è stata la costruzione dei pozzi. Qui, come in diverse zone dell’Africa, la mancanza d’acqua ha da sempre limitato le attività, l’economia e la vita di intere popolazioni. I Samburu sono infatti pastori nomadi. Impiantare un sistema idrico fatto con un pozzo che riesce a fornire acqua in maniera stabile alle persone del villaggio ha favorito l’avvio di alcuni nostri progetti legati all’agricoltura. Abbiamo così potuto implementare all’interno della missione alcuni piccoli orti gestiti da gruppi di quattro donne ciascuno, dove ‘sperimentare’ l’agricoltura e imparare qualcosa che per i Samburu è completamente nuovo”. Nuovo come l’approccio che i missionari, qui come in tante altre zone del pianeta, hanno dovuto instaurare con chi in quelle terre vive da secoli con tradizioni e culture molto diverse dalle nostre. “Il nostro stile è quello di evitare sempre lo scontro, ma cercare il dialogo, stare vicino alle persone, dare fiducia ai laici, anche perché per far conoscere Dio non è necessario sempre e solo parlarne, ma mostrare una strada nuova di dignità della persona, della famiglia, di un’intera comunità. Così cerchiamo di incarnare con il nostro piccolo servizio quel fervore che da sempre accompagna la Chiesa in uscita – come l’ha ben chiamata papa Francesco qualche tempo fa – annunciando Gesù fin negli angoli più remoti della terra”. Annuncio e servizio che ha già portato diversi frutti nelle missioni raggiunte dai padri della congregazione colombiana, perché sono ben 13 le vocazioni sacerdotali nate tra le diverse missioni nella regione dei Samburu. “La nostra evangelizzazione si muove infatti su diversi livelli: una è legata ai progetti; una parte la definirei più sociale, mentre molta attenzione la riserviamo a quello che chiamerei filone accademico, che cerca di sostenere nello studio non solo gli aspiranti sacerdoti, ma anche i ragazzi che vogliono proseguire negli studi universitari aiutandoli, ad esempio, a fare pratica con il pc nel nostro piccolo laboratorio”. Infatti uno degli obiettivi è quello di formare una nuova generazione di ragazzi che entrino a far parte del governo del luogo. “Ora sono pochissimi – sottolinea padre Francisco. Per fortuna nel nostro villaggio c’è una scuola dove le nuove generazioni stanno imparando a parlare l’inglese (lingua ufficiale in Kenya, insieme allo swahili, ndr) ma le condizioni di svantaggio sono ancora troppe”. Ma per chi crede in Dio nulla è impossibile. 

La “fattoria dei tremila amici” e le altre missioni

“Quella che a piccoli step sta prendendo forma nasce da una campagna promossa attraverso i social network che ci ha consentito di racimolare la somma necessaria per acquistare questo terreno… insomma il totale diviso 3mila quote. Perchè se Dio vuole, anche finanzia”. Così Padre Jairo, che con calore e simpatia ci ha accolto mostrandoci i passi fatti in questi primi due anni, ci ha accompagnato in quella che dalla sua nascita è divenuta la “Fattoria dei tremila amici”. Un luogo non molto lontano da Nairobi e dal “quartier generale” dei missionari di Yarumal nella capitale, la Kerygma house, nel quartiere di South B. “In questa fattoria – prosegue il padre provinciale – vogliamo che le persone imparino a coltivare e a fare agricoltura biologica. Ci sono infatti dei gruppi di persone che dalle nostre missioni nella regione dei Samburu vengono qui per cinque turni di una settimana in quella che sta diventando una vera e propria fattoria didattica”. “Questo – sottolinea ancora padre Jairo –  vuole essere uno spazio di crescita e trasformazione soprattutto per le donne che vengono aiutate ad emanciparsi rispetto ad una cultura ancora troppo maschilista”. Al lavoro di avviamento all’agricoltura fatto con le donne, si affianca quello di formazione dei seminaristi portato avanti nelle strutture nate all’interno del perimetro della fattoria. “I seminaristi che passano da qui lo fanno per capire cosa significa servire la gente. Da qualche anno, insieme a quelli che vengono dalla Colombia, si sono aggiunti alcuni del luogo, per un totale di ben 15 ragazzi in formazione”.  

Missione e formazione che continua e si perfezione negli altri luoghi nei quali i missionari sono impegnati. Infatti al già citato villaggio di Barsaloi, si aggiungono le missioni di Thun e Lodung’okwe, sempre nella regione dei Samburu. Nella seconda, che abbiamo visitato, abbiamo incontrato padre Jimmy, padre Sergio e padre Carlos che si occupano di un territorio vastissimo che conta più di 10mila persone. “La nostra pastorale è mirata ad accompagnare le persone per avviare piccole comunità di base nelle quali cerchiamo di andare almeno una volta la settimana per fare delle catechesi – ci racconta padre Jimmi mentre con lui ci spostiamo in una chiesa dove celebrerà messa. Inoltre, cerchiamo di avviare e sostenere diversi progetti educativi con i ragazzi offrendo loro borse di studio, e sostenendo delle scuole serali per i tanti che durante il giorno sono dediti alla pastorizia”.

Le suore di Santa Teresa. Il dispensario e il lavoro con le donne

Appena fuori dai “confini” della missione gestita dei padri colombiani, a completarne l’opera, si trova la struttura che ospita il ramo femminile della congregazione di Yarumal formato dalle Suore Missionarie di Santa Teresa. A gestire i progetti portati avanti nel villaggio divenuto famoso con il film “Masai Bianca” del 2003, ci sono quattro suore. Ad accoglierci e ad accompagnarci nell’ambulatorio e dispensario farmaceutico c’è suor Elisa, infermiera professionale, qui da ben otto anni, dopo altri undici passati in Egitto. “Curare le persone non è una cosa semplice, e qui il compito è stato ancora più difficile non solo per la carenza di mezzi ma soprattutto perché abbiamo dovuto educare ad abbandonare la medicina tradizionale. Ora, invece, siamo in grado di curare le persone con i farmaci, e far partorire le donne nella nostra piccola sala parto”. Insieme al dispensario farmaceutico, le suore missionarie aiutano alcune donne – soprattutto giovani vedove – a realizzare dei lavori artigianali ,spesso unica fonte di sostentamento per la famiglia.