In Grecia la sovranità nazionale non è più un totem

Atene ha dovuto rinunciare ad alcune prerogative statali per ottenere gli ingenti aiuti europei così da rimettere in ordine il bilancio e provare a far ripartire l'economia. Ma lo stesso è accaduto per gli altri 18 Paesi dell'area euro. I valore dei trattati, gli impegni condivisi nell'Eurozona e un accidentato percorso comune dal sapore "federale".

Quando all’inizio di luglio la crisi si è mossa verso il suo apice è diventato chiaro che la Grecia non sarebbe stato più uno Stato sovrano. Che il governo greco o il popolo greco lo volessero o meno, hanno infatti dovuto accettare di essere ancora una volta salvati dal baratro dai partner dell’unione monetaria europea. A malincuore la Grecia ha dovuto accettare il risanamento e la riforma del suo sistema economico e sociale con misure che aveva in precedenza respinto con veemenza; in cambio, ha ricevuto ingenti prestiti per finanziare il suo bilancio. Ma anche gli altri 18 Stati membri dell’unione monetaria, o Eurozona, non sono più sovrani. Che lo volessero o meno, hanno dovuto partecipare al salvataggio della Grecia. La perdita di sovranità non si è verificata solo con la crisi: è un elemento costitutivo dell’appartenenza all’unione monetaria, sancito nei trattati a cui gli Stati membri in libera autodeterminazione hanno aderito. Essi stabiliscono regole vincolanti, il cui rispetto è essenziale per il funzionamento dell’Unione. Questo, insieme alla perdita di sovranità legata alla moneta unica, è la ragione per la resistenza furiosa dei nazionalisti di sinistra e di destra che sono sul piede di guerra contro l’euro in tutti gli Stati membri. Per loro, la sovranità dello stato-nazione continua a essere una vacca sacra. Non vogliono ammettere, e tantomeno accettare, che, in un contesto di globalizzazione, gli stati-nazione possano crescere e adempiere ai loro doveri solo se condividono la propria sovranità con i vicini. Per i Paesi europei, non è più importante solo essere “sovrano”, ma poter contare l’uno sull’altro. I nazionalisti di sinistra e di destra avevano consacrato come loro eroe Alexis Tsipras, il giovane e carismatico primo ministro greco, che aveva riscosso una spettacolare vittoria elettorale nel mese di gennaio, e speravano che egli avrebbe rimodellato non solo la Grecia, ma l’Europa intera secondo le loro intenzioni. Questa nuova Europa doveva essere liberata dai vincoli derivanti dall’integrazione monetaria. Le “misure di austerità” assunte in relazione alla crisi del debito sovrano avrebbero dovuto essere sostituite – secondo tale logica – da una politica che avrebbe finalmente risposto alle esigenze del popolo anziché agli interessi delle banche. Tsipras ha però dovuto deludere tali aspettative quando in Consiglio europeo il 12 luglio si è confrontato con la realtà. La comunità dei suoi fan, tuttavia, non se l’è presa male, perché per gli ideologi la cosa più semplice è dare la colpa del loro fallimento ad altri, questa volta di nuovo alla cancelliera tedesca e al suo ministro delle finanze, che in accordo con la maggioranza dei colleghi europei hanno insistito perché la Grecia fornisca il proprio responsabile contributo per poter ottenere l’attesa e indispensabile assistenza finanziaria. Il dibattito circa il modo migliore per salvare la Grecia come membro della zona euro ruota attorno ai concetti di “austerità” e “crescita”. Mentre la politica di austerità viene denigrata dagli amici e simpatizzanti del primo ministro greco come opera del diavolo, essi vedono nella politica di crescita una panacea, partendo dal presupposto che la crescita deriva principalmente dallo spendere soldi. Ma in Grecia nel corso degli anni sono già stati spesi, anzi bruciati, miliardi di euro, senza che ciò abbia portato alla crescita, bensì al disastro. Una crescita sostenibile – e solo di questo si può trattare se con essa la situazione economica e sociale di un popolo deve essere migliorata – richiede basi solide. Nei casi in cui – come oggi in Grecia – mancano tali basi, non essendo disponibili adeguate strutture amministrative e avendo già contratto debiti elevati con spese sconsiderate, occorre prima di tutto creare le condizioni per una politica di crescita. E ciò è possibile solo attraverso un periodo di austerità e di rigore nei conti pubblici. Ciò corrisponde al senso comune e anche all’esperienza che di recente è stata fatta in Spagna, Portogallo, Irlanda e in alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale. Queste esperienze valgono più delle previsioni di alcuni economisti e premi Nobel americani, innamorati delle proprie teorie, ma che sembrano ignorare la situazione e la realtà della politica d’integrazione europea. Nessuno oggi può sapere se alla fine sarà valsa la pena dello sforzo e se la Grecia potrà effettivamente essere salvata in pochi anni come membro riformato e riorganizzato dell’unione monetaria. Eppure questo è un compito che richiede l’intervento solidale dei Paesi dell’Eurozona e riforme responsabili ad Atene. Ma non si tratta solo della Grecia. Essenziale per il futuro dell’unione monetaria sarà se le istituzioni europee e i governi riusciranno a risolvere i loro difetti congeniti e sostituire le regole scarsamente rispettate con un istituto federale che sintetizzi in una sovranità europea la sovranità nazionale, persa dagli Stati membri, e in nome della Comunità possa prendere le necessarie decisioni per il bene dell’Europa e dei suoi cittadini.