Cultura
La Deposizione di Cristo del Mantegna

L’opera rinvenuta a Pompei è attribuita al pittore rinascimentale legato alla cultura classica
Pochi anni fa, nel Santuario di Pompei, è stato ritrovato un dipinto raffigurante la scena biblica della Deposizione di Cristo. Un recente restauro ha stabilito che si tratta di un’opera autografa del pittore rinascimentale Andrea Mantegna, a cui è dedicata la mostra dal titolo “Il Mantegna di Pompei. Un capolavoro ritrovato”, inaugurata alcuni giorni fa nella Sala XVII della Pinacoteca Vaticana. La tela, tra le opere temporaneamente esposte in questa rassegna romana, richiama l’attenzione sul legame tra fede, cultura e arte. È un esempio palese di come Mantegna mescoli il classicismo con la gestualità e le fisionomie teatralmente drammatiche, dando un forte impatto visivo agli spettatori. Formatosi a Padova negli anni tra il 1441 e il 1448, presso Francesco Squarcione, una singolare figura di artista e antiquario, collezionista di anticaglie, la cui bottega costituiva un importante punto di incontro tra artisti, Andrea Mantegna (1431-1506) fu uno dei più grandi artisti rinascimentali dell’Italia settentrionale. Dai toscani attivi a Padova apprese il gusto per il disegno nettamente delineato, scultoreo, e la capacità di rappresentare lo spazio secondo le regole prospettiche, mentre dal legame con gli antiquari veneti ottenne stimoli ad approfondire la cultura antica. L’approccio archeologico all’arte classica è evidente nel suo interesse per l’epigrafia, riscontrabile negli affreschi Storie di San Giacomo e di San Cristoforo (1448-1457), conservati nella cappella Ovetari nella Chiesa degli Eremitani a Padova. Il classicismo rappresenta per Mantegna, non solo un modo per recuperare la realtà e l’uomo, ma anche una sorta di scenografia entro cui ambientare figure statuarie e fortemente espressive. Nel Cristo morto (1483 circa), conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano, il maestro ormai maturo traduce i propri interessi per l’arte antica in un linguaggio realistico e aspro, dipingendo il soggetto secondo i canoni dell’altorilievo scultoreo antico, ma accentuando l’impatto violento e drammatico. Il pittore tenta, quindi, una ricostruzione quanto mai esatta del mondo passato, centrando in pieno l’obiettivo di portare sulle sue tele quel classicismo antiquario, in grado di far rivivere l’antichità nel ricordo e nella fantasia. La Deposizione ritrovata, una tempera grassa su una sottilissima tela in lino, mostra Cristo morto che sta al centro della scena, avvolto nel sudario e retto da alcuni uomini evidentemente tristi. Maria è ripiegata su sé stessa ed è in penombra, mentre una Maddalena addolorata, impugnando il rosario, guarda il cielo. La Gerusalemme ritratta sullo sfondo, simile a una Roma antica, è illuminata dalla luce del tramonto. La composizione del quadro rimanda alla cultura rinascimentale e a quella classica, che caratterizzarono l’arte del maestro veneto. Ci sono, tuttavia, molti lati oscuri relativi alle vicende che portarono alla scoperta di questo cimelio. Nel 2020 Stefano De Mieri, professore di Storia dell’arte moderna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, consultò il database BeWeb contenente l’inventario dei beni culturali ecclesiastici italiani, imbattendosi in un’immagine raffigurante la Deposizione di Cristo, conservata a Pompei in cattive condizioni e già citata nell’articolo “Paragone” del 1956 scritto da Ferdinando Bologna, suo maestro. Bologna aveva introdotto alcune versioni più tardive dell’opera, tra cui quella del polittico della Collegiata di San Giovanni Battista ad Angri nel Salernitano, e un altro esemplare posseduto da privati. De Mieri ebbe modo di vedere l’originale nel 2021, dopo la pandemia, riscontrando diverse parti alterate dai rifacimenti. C’erano, però, alcune sezioni rimaste intatte come il volto della Maddalena, lo sfondo con Gerusalemme e la porta monumentale a sinistra, la cui alta qualità artistica faceva escludere che si trattasse di una copia. Lo studioso, allora, chiese il restauro della tela, condotto dentro il Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani, con l’appoggio di Barbara Jatta, direttrice dei Musei Papali, e di mons. Tommaso Caputo, arcivescovo di Pompei, e in stretta collaborazione con il Parco Archeologico di Pompei, la Galleria Nazionale delle Marche e la Direzione Regionale Musei delle Marche. La direzione dei lavori è stata affidata a Fabio Morresi, coadiuvato da Francesca Persergati, direttrice del Laboratorio di Restauro Dipinti e Materiali Lignei, e dai maestri restauratori Lorenza D’Alessandro e Giorgio Capriotti. Dopo due anni di lavori e un intenso studio documentale, sono stati svelati alcuni dettagli iconografici che confermerebbero l’originalità dell’opera attribuita a Mantegna, come ha sottolineato anche Fabrizio Biferali, Curatore del reparto per l’Arte dei secoli XV-XVI dei Musei Vaticani. È stata effettuata un’operazione di ripulitura della superficie pittorica della Deposizione, con cui sono state eliminate varie ridipinture aggiunte nel tempo, mostrando il soggetto di base per come Mantegna l’aveva concepito. Dalla riflettografia è emerso un disegno preparatorio, mentre indagini più specifiche hanno rilevato l’alta qualità del paesaggio di Gerusalemme sullo sfondo, che è un pastiche di elementi archeologici e rinascimentali. L’arco sulla sinistra, invece, rimanderebbe all’Arco di Tito, con le Vittorie alate nei due archivolti. Questi elementi sono forse conseguenza del soggiorno romano di Montegna tra il 1488 e il 1490, quando ricevette l’incarico da Innocenzo VIII di affrescare la cappella del Belvedere nei Palazzi Vaticani, un’esperienza importante grazie alla quale prese confidenza con i monumenti antichi. Il pittore realizzò la Deposizione verso la fine del 1400, forse su commissione di Federico I re di Napoli, zio di Isabella d’Este. L’ipotesi avanzata da De Mieri è che la tela fu inizialmente concepita come oggetto di abbellimento per la Cappella absidale di San Domenico Maggiore a Napoli nella quale, a partire dal 1494, venivano riposti i resti dei re aragonesi. Il capolavoro era già documentato, sin dal XVI secolo, in questo edificio di culto da un documento storico del 1524, scritto dall’umanista Pietro Summonte e rivolto all’amico Marcantonio Michiel. Summonte scrive che “in Santo Dominico una cona (icona, ndr.), dove è Nostro Signore levato dalla croce e posto in un lenzuolo, di mano del Mantegna”. Questa lettera attesta molto bene l’arte napoletana del Rinascimento, presa come punto di riferimento anche da storici come Fausto Nicolini. Prima dell’incendio del 1506, che interessò la Basilica partenopea, ai lati dell’altare maggiore vi erano altri due altari, su uno dei quali è possibile che fosse stata sistemata proprio la Deposizione mantegnana. L’incendio del 1500 doveva aver provocato dei danni ingenti al quadro, che fu spostato dalla sua posizione originaria e, nel corso del tempo, sottoposto a ridipinture, ora eliminate con l’ultimo restauro. Se ne persero in seguito le tracce fino a quando, durante l’ottocento, la Deposizione fu concessa, tramite una donazione, al Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, dove è stata effettivamente trovata. Fatto quanto mai eclatante, tenendo in considerazione che Mantegna non si recò mai fisicamente in Campania. Il capolavoro sarà collocato definitivamente nel museo centrale del Santuario pompeiano, dopo la conclusione della mostra vaticana, insieme ad altri dodici dipinti della scuola napoletana del seicento e del settecento. Pompei si riconferma culla di una civiltà millenaria e può vantare tanti riconoscimenti, tra cui la recente richiesta di canonizzazione del Beato Bartolo Longo, che portò 150 anni fa il quadro della Beata Vergine del Rosario a Pompei, e ora questo Mantegna ritrovato. Due capolavori accomunati dal destino di impreziosire il già ricco patrimonio pompeiano, e ancora di più legati dall’esplicito riferimento al Rosario. Un richiamo all’importanza della preghiera durante l’Anno Santo e in un tempo forte come quello quaresimale.