La didattica digitale per essere presenti ed essere presenza

Rende. La sfida della docenza ai tempi del coronavirus: l’esperienza di una nostra collaboratrice

«È stato un trauma vedersi portare via il nostro lavoro e le nostre classi da un giorno all’altro. Con i miei ragazzi avevo costruito una relazione individuale e personale che non può essere sostituita. Li stavo aiutando a scoprire le loro vocazioni. Nei primi giorni dopo la chiusura delle scuole avevo in testa soltanto due domande: come stanno? E come stanno le loro famiglie?».

Roberta Zappalà, collaboratrice di Parola di Vita e docente di materie letterarie e umanistiche presso l’Istituto Paritario delle Scienze Umane “M.T. De Vincenti” di Rende, è una delle migliaia di insegnanti che, a causa dell’emergenza coronavirus, si è trovata catapultata nell’esperienza della didattica digitale. Un percorso – a volte accidentato e a volte estraniante – che è iniziato il 4 marzo, con la chiusura delle scuole stabilita dal Ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina. A questa prima misura di distanziamento sociale, è seguito, nei successivi giorni e settimane, un lockdown del governo valido per la maggior parte delle attività non essenziali.

«Non ci aspettavamo – racconta Roberta – di andare incontro a un così prolungato periodo di assenza dalle classi. Nel mio Istituto si usavano già strumenti propri della didattica digitale, ma la nostra policy in generale è interpretare l’attività multimediale come integrativa del lavoro che si svolge in classe. Un lavoro che è necessario per dare la giusta importanza alla relazione docente-discente».

Smaltito lo shock, quindi, la sfida è stata riuscire a mantenere inalterato il significato formativo dell’esperienza scolastica anche nel regno del virtuale e in un momento in cui – nel mondo reale – la quotidianità è cristallizzata in una paralisi inquietante. «In tre settimane – spiega – ho dovuto organizzare classi virtuali e abituare i miei allievi che, sembra strano a dirsi, alcune volte non ricordavano neanche username e password dei loro indirizzi email». E, poi, è stato necessario parlare agli studenti. Non allarmarli, placare la loro rabbia per una quotidianità crudelmente smarrita. Ma, allo stesso tempo, renderli consapevoli della gravità della situazione, fargli capire che con il coronavirus non si scherza, metterli all’erta dalle fake news di chi minimizza per professione.

«I ragazzi – continua Roberta – inizialmente si aspettavano uno stop delle lezioni soltanto per quindici giorni. Erano disorientati, ma vivevano la pausa forzata come un secondo Natale. Dopo le misure restrittive annunciate dal Presidente del Consiglio Conte, però, hanno cominciato a metabolizzare». E prosegue: «Per un adolescente è brutto vedersi chiuso in casa. Vuol dire rendersi conto di non essere padrone né del mondo, né di sé, né tantomeno dell’”odiata” scuola». Alle difficoltà psicologiche si sono aggiunte problematiche logistiche e territoriali. «Non tutti i miei studenti – aggiunge Roberta – hanno a disposizione strumenti per attivare le classi digitali. Sembra una frase retorica, ma purtroppo è così. In certe zone periferiche della Calabria non c’è neanche campo telefonico. La fibra ottica non è mai arrivata in Regione e queste sono cose che si pagano».

La sfida della didattica a distanza, quindi, poteva esser vinta in tempi brevi soltanto creando un’efficace sinergia tra corpo docenti e alunni – seguendo gli input organizzativi lanciati dal Ministero dell’Istruzione e dalla FIDAE (Federazione Istituti di Attività Educative). «Durante la prima settimana dell’esperimento – racconta Roberta – i ragazzi si sono impegnati a recuperare i materiali sopra i quali lavorare e hanno imparato a gestire carichi di lavoro che, a volte, gli si sono accumulati per colpa della difficile situazione in cui tutti ci siamo trovati. Dalla seconda settimana, poi, i miei colleghi e io abbiamo iniziato a tenere video-lezioni di venti minuti. Adesso, finalmente sento di aver ritrovato il mio gruppo-classe e la mia rete. È stato un lavoro più umano che tecnologico. Oggi i miei allievi hanno capito che la scuola non è una prigione e, nonostante abbiano subito una terribile privazione, hanno voglia di prendere in mano le loro vite». E per gli insegnanti? «Chi non ha potuto attivare i mezzi virtuali, perché sprovvisto di computer in grado di supportare le piattaforme o di una wi-fi forte abbastanza per consentire videochiamate di gruppo, ha mandato agli studenti file audio sui quali era incisa la lezione, accompagnati da sintesi, video o di power point», aggiunge.

Alla Coordinatrice delle attività didattiche ed educative dell’Istituto De Vincenti, Suor Immacolata Gigliotti, va invece il merito di aver dato il via alla didattica a distanza con tempestività, lasciandoci carta bianca nell’adozione della piattaforma digitale da usare per le lezioni online. «I miei colleghi e io – spiega Roberta – ci connettiamo alternativamente su Skype, carichiamo le lezioni e i materiali semplificati su Hub Scuola della Mondadori e BSmart della Dea Scuola. Il Ministero dell’Istruzione ci ha poi messo a disposizione Google Suite, mentre l’Ufficio Regionale Scolastico della Calabria ha organizzato webinar per imparare a sfruttare le potenzialità di Microsoft Teams». E prosegue: «Essere versatili nell’utilizzo di più piattaforme virtuali ci tornerà utile se – come si va delineando – si renderà necessario portare avanti consigli e collegi di classe, nonché gli scrutini di fine anno in forma digitale».

L’Istituto De Vincenti, quindi, sembra aver trovato la formula giusta per mettere insegnanti e alunni a proprio agio nel lavorare a tempo pieno circondati dalle prese del computer e con il suono della videochiamata su Skype che rimbomba nelle stanze di tutti. Ma guai a parlare di ricetta per la didattica a distanza. «È necessario – dice Roberta – stabilire un rapporto di empatia con gli studenti, magari chiedendo a chi è più in gamba con la tecnologia di diventare tutor dei suoi stessi compagni. È facile che un alunno si vergogni di dire al professore che non riesce a far funzionare il suo account». 

E poi, forse, in un periodo così difficile, se c’è davvero un amuleto che può aiutare il mondo della scuola a compattarsi e ad affrontare le massicce sfide educative all’orizzonte, è proprio un po’ di empatia in più. «Sui social – conclude Roberta – ci sono tanti haters nei confronti degli istituti paritari, come se noi docenti non ci fossimo attivati tempestivamente perché ai nostri alunni non venisse negato il diritto all’istruzione. Del resto, già gli è stato impedito di stare nella loro classe, con i loro professori, con le loro abitudini. Molti di questi ragazzi sono sensibili. Si sono visti preclusi la relazionalità, l’essere presenti e l’essere presenza». Mentre parla, a Roberta si spezza un po’ la voce, a pensare all’ingiustizia di quegli adolescenti di cui si sente guida. Perché – giova ricordarlo – non è giusto che i suoi allievi siano stati costretti a maturare in fretta, fagocitati nell’abisso di una terribile epidemia che risponde al nome di coronavirus.