La mostra Icone di speranza a Roma

L’esposizione è parte della rassegna “il Giubileo è cultura” ed è visitabile entro il 16 febbraio

La meravigliosa cornice della sagrestia del Borromini, nella Chiesa barocca di Sant’Agnese in Agone a Roma, ospita fino al 16 febbraio la mostra dal titolo Icone di speranza. Il cammino della fede nei Musei Vaticani. Si tratta del quinto appuntamento di arte e fede nell’ambito della rassegna “Il Giubileo è cultura”, organizzata dal Dicastero per l’Evangelizzazione, in collaborazione con la Direzione dei Musei e dei Beni Culturali del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. L’esposizione, inclusa nel calendario ufficiale degli eventi previsti per l’Anno Santo, è curata da Anna Pizzamano e Pietro Beresh del Reparto per l’Arte bizantino-medievale dei musei papali. Diciotto icone di proprietà dei Musei Vaticani, realizzate dopo la caduta dell’impero bizantino e provenienti da vari paesi dell’Europa orientale cristiana (Grecia, Bulgaria, Ucraina e Macedonia) accolgono i fedeli in visita nella capitale. Questi manufatti “postbizantini” sono giunti nella Santa Sede come doni fatti, nel corso degli anni, ai pontefici. Sono sopravvissuti ad eventi drammatici che ne misero a repentaglio l’esistenza, come il movimento iconoclasta che interessò l’impero romano d’Oriente tra il VII e il IX secolo. Chi difendeva queste immagini, infatti, era perseguitato o ucciso in nome dell’assoluta trascendenza e imperscrutabilità della natura divina di Dio. Il secondo Concilio di Nicea del 787, richiesto da papa Adriano I e dall’imperatrice d’Oriente, Irene l’Ateniana, affrontò il tema riguardante il significato e la liceità del culto delle immagini. L’assise pervenne alla definizione della vera natura delle icone che simboleggiano un’arte, per mezzo della quale viene raffigurata l’Incarnazione del Figlio di Dio. Il teologo arabo di fede cristiana Giovanni Damasceno (670-680), su incarico di Papa Gregorio III (690-741), difese il culto delle immagini sacre contro la loro distruzione voluta dal movimento iconoclasta, turbando per circa un secolo la vita interna della Chiesa, specie nelle terre del Mediterraneo centro-orientale, e la vita politica e sociale dell’Impero bizantino. Il pensatore addusse come motivazione per l’esistenza e la salvaguardia dei ritratti sacri il fatto che Dio, incarnandosi e facendosi uomo, da invisibile si rende visibile, quindi “l’immagine è una copia che riproduce il modello originario… è una somiglianza, una raffigurazione ed un ritratto di qualche cosa… non è completamente simile al prototipo”, tuttavia esprime “la gloria di colui che è raffigurato” si legge nei Discorsi apologetici di Damasceno. L’icona è “tempio”, ovvero un luogo in cui colui che è raffigurato è anche presente e ci ricorda che anche noi umani siamo un’icona di Dio, come ribadito dal Concilio di Efeso del 431. Dalla Palestina, dalla Siria, dall’Egitto, da Bisanzio e dalla Russia si diffusero ben presto tradizioni iconografiche che attecchirono in Oriente e in Occidente, facendo sì che l’icona diventasse parte della simbologia liturgica e fosse segno di venerazione. La funzione dell’icona è fondamentale sia per la tradizione cristiana che per quella bizantina, poiché rappresenta il significato e il valore dei segni del mistero pasquale che ci rendono consapevoli della grandezza del Padre. È un tentativo visivo per cercare di inquadrare, all’interno di una cornice, la Parola del Signore contenuta nel Vangelo, è un modo per avvicinarsi alla divinità e per stabilire un contatto con essa, cercando di rendere il più reale e tangibile ad occhio umano quanto dipinto. “Le abbiamo chiamate icone di speranza, in linea con il motto del Giubileo, proprio perché siano veicolo di pace e di fratellanza, come è dimostrato dalla commistione di stili. Metterle tutte insieme equivale a dire che siamo tutti portatori di uno stesso messaggio. Si tratta per la maggior parte di dipinti da poco restaurati grazie all’impegno dei maestri del Laboratorio Dipinti e Materiali lignei e del Laboratorio Metalli e Ceramiche, supportati dalle indagini condotte dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche applicate ai Beni Culturali dei Musei Vaticani” ha riferito Barbara Jatta, direttrice dei Musei papali alla presentazione della mostra. Queste icone, ora esposte nella Chiesa di Sant’Agnese, risalgono al periodo che va dal XV al XX secolo e testimoniano il legame tra periodi, generazioni e territori eterogenei. Alcune di queste furono prodotte con la tecnica a tempera su tavola, altre con tecniche ad olio o miste, mentre altre ancora sono contraddistinte da pregiate coperture metalliche (rize) e da smalti e pietre preziose. Siamo dinnanzi a icone votive, trittici da viaggio e menologi destinati a scopi liturgici e alla devozione personale. Gli iconografi e i monaci, anticamente, le dipingevano come strumenti di contemplazione e le usavano come oggetti per rivolgere a Dio le loro preghiere. Tali dipinti sono conservati in apposite vetrine e illustrano personaggi e scene della vita di Gesù, di Maria e dei Santi. La raccolta si apre con il tema della fuga in Egitto ritratto nella “Santa Famiglia”, che scappa dalla furia di Erode. Maria è in groppa ad un asino e allatta Gesù mentre Giuseppe tiene la cavezza e guida il cammino. Lo sfondo dorato è tipico della tradizione orientale e richiama la regalità di Cristo. Ci sono anche un trittico da viaggio con Cristo Pantocratore e l’immagine dei Santi Pietro e Olga, granduchessa di Kiev, promotrice del cristianesimo in Ucraina, prodotta agli inizi del 1900 dalla Maison Fabergé a San Pietroburgo, e offerta a Pio XI nel 1929 dai cattolici russi di rito bizantino residenti in Cina.

Spicca anche l’icona con 144 illustrazioni della Madonna col Bambino, di datazione incerta ma risalente a fine ottocento, ricevuta da Giovanni Paolo II nel 1993 dall’allora premier libanese musulmano Rafik Hariri. Questa mostra vuole portare all’attenzione del pubblico i temi della Speranza, al centro dell’Anno Santo, e della pace. Troviamo infatti, l’una affianco all’altra, due icone provenienti da due nazioni oggi in guerra tra loro: una russa raffigurante San Vladimir (l’Isoapostolo), principe di Kiev, cattolico e promotore nel 988 del battesimo nel fiume Dnepr (il “Giordano” dell’Antica Russia) del suo popolo;  l’altra ucraina con l’immagine della Vergine Odigitria, la Madonna che indica il Dio Bambino, danneggiata negli anni della dittatura sovietica. Quest’ultima fu donata a Wojtyla durante il suo viaggio apostolico nel 2001. I due esemplari alludono al desiderio di pace e di riconciliazione e lanciano un chiaro messaggio: porre fine alle armi ricercando l’abbraccio comune nella fede in Dio. Questi preziosi manufatti non sono quadri ma spiragli per contemplare l’Aldilà, frammenti del Cristo che ci salva e ci dona la sua misericordia. Sono testimoni di salvezza e segni di accoglienza per tutti i pellegrini che, in occasione dell’Anno Santo da poco partito, si recheranno a Roma per ottenere le indulgenze e per riflettere sulla loro fede. “L’icona non è solo dipinto – ha sottolineato il Pro-Prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, Sua Eccellenza Mons. Rino Fisichella –. Essa diventa un’autentica scrittura dove leggere la storia della salvezza. La storia insegna di tanti pellegrini che portavano con sé l’icona per non sentirsi soli nel cammino, ma inseriti nella compagnia dei santi. Ci auguriamo che quanti avranno la possibilità di visitare l’esposizione possano contemplare il mistero che emerge dall’icona per appropriarsi della santità che intende esprimere.”