La responsabilità verso l’altro come certezza di una nuova umanità

Levinas insegna che l'uomo rinasce sempre dall'incontro con l'altro

Una domanda apparentemente retorica segna lo scorrere inesorabile della nostra postmodernità caratterizzata dal superamento di modelli chiusi, di grandi verità: l’essere umano è una monade chiusa senza “porte e finestre” che si risolve in sé stessa o è un io che si proietta in relazione entro una dimensione storica fatta di presenze?  Nonostante numerose teorie e analisi abbiano inficiato la prima ipotesi, ovvero l’inconsistenza di un io incapace di relazionarsi con gli altri, fattualmente si registra un ripiegamento dell’io a una dimensione egocentrica in cui a prevalere è la libertà assoluta piuttosto che relativizzata alla presenza di un altro.

Ad approfondire l’opzione di una relazione imprescindibile con l’altro come fondamento costitutivo, è il filosofo Emmanuel Levinas, quando sottolinea l’alterità come uscita dalla nostra soggettività egoistica. È infatti il volto l’accesso all’incontro con il prossimo che ci chiama alla responsabilità. In tutta la filosofia leviniana il tema del volto è centrale perché è il luogo etico in cui si sostanzia la presenza di un “non me”. Per il filosofo il volto è “significazione e parla, mi interpella. E bisogna rispondere a lui e rispondere già di lui”. Ecco, dunque, il tema della responsabilità che non è qualcosa di accessorio, ma la struttura essenziale, primaria della soggettività che descrive in termini etici.

Non posso sottrarmi: la soggettività è fin dall’inizio, per un altro”. Il legame con lui si stringe soltanto come responsabilità, sia che essa venga accettata o rifiutata. Da questo assunto ne deriva che la relazione etica ci fa uscire da un ripiegamento su sé stessi, da una condizione solipsistica e ci apre alla dimensione relazionale col mondo. Un essere in relazione con altro da me fino all’assunzione estrema. “Quello che nel volto viene detto come domanda significa certamente un appello al donare e al servire, ossia al comandamento di donare e servire, ma al di sopra di questo, e includendolo, si dà ordine di non lasciare solo altri, fosse pure di fronte all’inesorabile”. Estremamente attuali risultano queste parole che ci spingono a ripartire insieme per generare un futuro nuovo. Si tratta di abbandonare la misura stretta dell’autoreferenzialità per sbilanciarsi verso il mondo e gli altri (Mauro Magatti). Non è autentica vita, dunque, quella che non si “risvegli all’altro”, che non lo includa nel proprio mondo. “L’essere non è mai, contrariamente a quanto affermano tante tradizioni rassicuranti, la sua propria ragione d’essere: il ben noto conatus essendi non è la fonte di ogni diritto e di ogni senso”. Come essere pensante l’uomo è colui per il quale il mondo esterno esiste. Alla domanda di Dio “Dov’è Abele, tuo fratello?”, Caino risponde: “Non so. Sono forse io il custode di mio fratello?”, determinando una serie di riflessioni e riproponendo un tema sempre attuale, che continuamente ci interpella nonostante i tentativi di rimozione che facciamo con noi stessi sul senso della responsabilità per chi ci è prossimo.  La domanda che dovrebbe rappresentare un comune denominatore delle nostre azioni sociali è quella di chiederci se può darsi un “essere con gli altri” che non preveda il richiamo alla responsabilità. È plausibile un senso della comunità, un superamento dell’individualismo sfrenato che non comprenda la responsabilità di ciascuno di noi per chi si fa compagno di strada? A questa domanda il filosofo di origini ebraico-lituane porta alle conseguenze estreme questo primato dell’altro su di me quando in Etica e infinito scrive: “Siamo colpevoli di tutto e di tutti, davanti a tutti; e io più degli altri”.

Un passaggio definente che esprime il tentativo di superare ad un tempo una chiusura egoistica e un annullamento masochistico. Un invito a ripensare sulla liceità di un modo di procedere solitario e autoreferenziale di contro ad un tentativo di contrattazione sociale che includa bisogni, diritti e doveri differenti. Ognuno di noi è altro per l’altro, io per l’io in una logica di reciproca assunzione di responsabilità.  

Sembriamo soccombere ad una terribile crisi di identità che sospinge ciascuno di noi verso un profondo e lacunoso senso di sfiducia e di paura verso il futuro, dall’altro ancora una cultura della comunicazione che si fa dissimulatoria, raffigurando il nostro Occidente come la terra promessa per l’affermazione della soggettività umana.

L’unica risposta, oltremodo infeconda, sembra ricadere sul senso di autosufficienza che restituisce un’immagine seppur sfocata di una società euforica che vede nel processo di individualizzazione delle scelte e della vita il movimento di liberazione dalla paura.

Si tratta di una rappresentazione – ne ha precise responsabilità il sottosistema comunicativo -, secondo cui la società del passato imponeva obblighi oppressivi e vincoli alienanti così da reprimere la realizzazione di ogni individualità. Dunque, non un io da costruirsi in relazione ad un tu, ma una soggettività senza confini identificativi. Sperimentiamo la crisi del simbolico, capace di orientare il nostro agire con contenuti di senso. Tutto sembra tradursi in un io delirante che vaga verso traiettorie incerte non capaci di infuturarsi, proiezioni di progetti di vita narcisisticamente ripiegati su sé stessi senza scopi intellegibili.

Si tratta in sostanza di reinventare il proprio modo di stare nel mondo, aprendolo alla partecipazione attiva, all’empatia, alla responsabilità sociale. Come ci indica Emmanuel Lèvinas, l’uomo nuovo rinascerà dall’incontro con il volto dell’altro, costringendolo a ripensare i fondamenti della sua cultura. Un’operazione concettuale che ci consenta di passare dal principio di identità al principio di alterità, dal primato dell’io al primato dell’altro. Solo così potremo superare il prevalere del pensiero dell’essere proprio della cultura greca che ha portato ad un’esaltazione della ragione e a un soggettivismo esasperato. Basti pensare quella filosofia dell’identico che si è sviluppata da Platone ad Hegel incentrata sul principio di identità, che pensava l’altro a partire da sé, considerandolo come un prolungamento dell’io.

Posso comprendere me stesso solo se colgo l’estraneità dell’altro. Da questo assunto posso cogliere l’etica come scoperta dell’alterità. La centralità dell’altro presuppone una relazione di responsabilità.

Dunque, il tendere ad investire sul proprio io l’intera felicità si risolve in un’operazione fallace e mortifera; vale la pena ricordare che la felicità non è mai una vicenda privata. La concentrazione sull’Io, che la società evanescente promuove, avvelena il nostro cammino verso la felicità. Per dirla con Adriano Pessina, questo processo sociale porta ad un’insoddisfazione dell’io stretto tra “Prometeo e Dio”. È rinunciando all’omologazione e aprendosi al riconoscimento dell’altro e da parte dell’altro che si può determinare la relazione come incontro costruttivo tra identità diverse. È proprio un’espansione del pronome personale che potrà salvarci (Zygmunt Bauman). Ed è senz’altro questa sfida che coglie in profondità la ragione stessa per la quale viviamo: sarà l’altro lo specchio che meglio potrà restituire l’immagine dell’io.