La Terza Repubblica prossima ventura

Il combinato disposto della riforma elettorale (che entrerà in vigore a luglio) e della riforma costituzionale (con la differenziazione delle Camere), che Renzi ha annunciato andrà a referendum in autunno, sembra compiere il processo iniziato nel 1993 con il referendum elettorale che ha segnato al fine della Repubblica proporzionale e l’introduzione di un sistema presidenziale per i Comuni, le Province (ora abolite) e le Regioni.

Checco Zalone, record ai botteghini con la sua spensierata commedia, canta che “la Prima Repubblica non si scorda mai”. Quest’anno potrebbe però davvero andare in soffitta. In effetti il combinato disposto della riforma elettorale (che entrerà in vigore a luglio) e della riforma costituzionale (con la differenziazione delle Camere), che Renzi ha annunciato andrà a referendum in autunno, sembra compiere il processo iniziato nel 1993 con il referendum elettorale che ha segnato al fine della Repubblica proporzionale e l’introduzione di un sistema presidenziale per i Comuni, le Province (ora abolite) e le Regioni. Mancava, a completare il disegno di una Seconda Repubblica, quello che allora Segni e Occhetto, il primo promotore, il secondo vero gestore politico del processo di riforme, chiamavano il “sindaco d’Italia”, ovvero l’elezione diretta del presidente del consiglio. Questo non avvenne per l’eterogenesi del fini rappresentata dall’irrompere di Berlusconi, e la conseguente iniziativa dei comitati per la difesa della costituzione di dossettiana ispirazione.

Anche oggi la riforma costituzionale non si spinge a modificare in termini espliciti la forma di governo: vi provvede però, più sommessamente, ma non meno efficacemente, la nuova legge elettorale. Renzi, già a fine anno, non ha esitato a intestarsi il referendum, di fatto trasformandolo in un appuntamento di legittimazione personale, in un “plebiscito”, come subito si è detto. Ci sono intere biblioteche sul punto, sulla cosiddetta “democrazia plebiscitaria”, in particolare sull’esperienza del generale de Gaulle e del suo ultimo referendum costituzionale, nel 1969, guarda caso proprio sul Senato e le regioni, che portò il presidente francese, sconfitto, alle dimissioni. Il punto è innanzi tutto politico, cioè la scommessa del presidente del consiglio di avere una diretta legittimazione personale,

per arrivare all’appuntamento delle politiche con la proposta di una nuova articolazione del sistema politico italiano, intorno ad un partito predominante, con due opposizioni non legittimate a governare, proprio perché – al limitare della Terza – “la Prima Repubblica non si scorda mai”. Dirà il dibattito dei prossimi mesi se il riflesso anti-plebiscitario, indirizzato vent’anni fa contro Berlusconi e il berlusconismo, prevarrà sulla spinta del nuovo e del fare. Rispetto a vent’anni fa in ogni caso quella che è stata definita, in gergo politologico, l’europeificazione del processo di produzione delle politiche pubbliche, ha fortemente svalutato il ruolo dei governi nazionali e dei parlamenti. Così da rendere in ogni caso urgente e non rinviabile un dibattito serio, franco e pacato sulla qualità e le prospettive della democrazia e della partecipazione nell’Italia europea, che finora è mancato. Senza indulgere alle semplificazioni e agli interessi a breve sarà il modo migliore per accompagnare con maturità un passaggio in ogni caso cruciale.