L’arte della buona battaglia contro i vizi

Intervista a don Fabio Rosini, autore del volume edito da San Paolo, sulla libertà interiore e i pensieri maligni. 

 

L’arte della buona battaglia è il titolo del libro di don Fabio Rosini, docente presso la Pontificia Università della Santa Croce e responsabile per l’ufficio vocazioni del vicariato di Roma, edito San Paolo nato dell’ascolto silenzioso prima ancora della scrittura. Un volume che va a completare una trilogia. I pensieri maligni di cui si parla in quest’ultimo lavoro di don Rosini sono la gola, la fornicazione, l’avarizia, la tristezza, la collera, l’accidia, la vanagloria e l’orgoglio. Un lavoro attento che don Fabio arricchisce mettendoci la sua esperienza personale e sacerdotale, nella quale per primo ha sperimentato l’arte della buona battaglia.

Don Fabio ognuno di noi nella vita si trova a combattere una battaglia. Come affrontarla da buon cristiano?

Innanzitutto c’è da dire che esistono le battaglie sbagliate, fuori luogo, incentrate su cose non vere o autentiche, e c’è una buona battaglia che implica la necessità di raggiungere la bellezza nella vita. Di questa buona battaglia ne parla San Paolo e ne hanno parlato tutti i padri spirituali. In noi c’è certamente una liberazione sempre in atto da tante trappole interiori che fanno parte della nostra vita. I maestri di questa battaglia erano i monaci del deserto del IV secolo che sulla scia di Sant’Antonio Abate cominciano a vivere questa battaglia interiore e diventano dei giganti per capire la struttura della vita interiore. Sono precursori straordinari sotto il profilo della psicologia umana. Oggi tante cose che noi conosciamo grazie alla psicodinamica o alle altre scienze che con le loro teorie hanno tentato di spiegare i movimenti profondi dell’intimo vengono scandagliate e analizzate da questi padri del deserto come Evagrio Pontico, che ha vissuto una vita da studioso, da maestro. Ad un certo punto però sente l’esigenza di lasciare tutto e di andare sulla scia di questi monaci che nel deserto andavano a combattere la battaglia interiore. Si tratta di asceti, di esicasti, cercano la pace. E nel combattimento sviluppano una conoscenza del profondo dell’uomo davvero straordinaria. Scrivono tra di loro, si mandano dei testi, che sono emblematici e diventano fondamento della conoscenza della struttura della vita spirituale che noi cristiani abbiamo. Sono un patrimonio tipico della Chiesa orientale e che noi occidentali abbiamo sempre attinto da loro. Pensiamo ad esempio a San Benedetto da Norcia quando va a iniziare l’avventura del monachesimo occidentale due secoli dopo, il quale sfrutta e saccheggia abbondantemente la sapienza di questi monaci. Evagrio è il primo che sistematizza i capitoli fondamentali dell’inganno interiore negli otto loghismói cioè gli otto pensieri maligni, e in occidente con Gregorio Magno li sistematizzeremo nei sette vizi capitali, cioè i capitoli del vizio.

Qual è la differenza fra i sette vizi e gli otto pensieri?

La differenza consiste nel fatto che uno di questi pensieri maligni sparisce dal nostro elenco, mentre in quello orientale di Evagrio Pontico che per primo lo compila, e da quello prenderanno tutti gli altri, ne abbiamo uno in meno che è la tristezza.

La tristezza è considerata il grande male di tutti i secoli. Perché è così difficile abbatterla?

È il grande male di tutti i secoli ma di questo secolo particolarmente vulnerabile proprio perché è un secolo tendente al narcisismo, alla sovra attenzione centrata sul proprio movimento interiore; viviamo un’ossessione per se stessi, che ci porta ad enucleare ancora di più questa difficoltà nel prendere bene la vita. La tristezza non è la mancanza di buon carattere, non è la mancanza di un atteggiamento positivo. Perché noi questo “vizio” non ce lo abbiamo nell’occidente? Perché in occidente noi esaminiamo i vizi, ovvero analizziamo gli errori dell’uomo a valle, cioè nei loro risultati; mentre gli orientali li analizzano a monte. Nella nostra quotidianità possiamo dire e riconoscere qual è un peccato di superbia o di lussuria o di gola;  come posso riconoscere invece un peccato di tristezza? È difficile da dire perché in realtà funge da motore per gli altri. È l’incipit che ci avvicina ad una scusa per darsi il permesso di essere vanagloriosi o invidiosi. Questo peccato noi lo abbiamo inglobato dentro l’invidia, infatti l’invidia è molto alimentata dalla tristezza, questo senso di competizione e di ingiustizia della gioia altrui fa parte del mondo della tristezza, ed è molto devastante.

Il peccato della tristezza agisce a tutte le età e in modi anche differenti. Come si trasforma nel corso della nostra vita?

Comincia molto spesso nell’età infantile, è quel momento di tristezza che un bambino prova dicendo “non mi vuole bene nessuno” e si piange addosso provando gusto nel farlo. Una delle cose gravi, che spiego nel libro, e tra l’altro fu una delle prime sorprese che ho avuto come prete, è che alla gente piace stare male, rimestare nella propria tristezza, nella propria melanconia, nei propri ricordi tristi. Questo filone della tristezza, della mestizia vende parecchio. Il sapore acre di questa tristezza da piacere e si trasforma con il crescere: dapprima la riconosciamo nell’atteggiamento piagnucolante infantile che con gli anni diventa rivendicazione adolescenziale, poi si trasforma nella rabbia giovanile ed infine nell’amarezza adulta; ci sono adulti e anziani che borbottano dalla mattina alla sera, quella è la tristezza.

E’ possibile sconfiggerla?

Bisogna capire qual è l’origine del problema, da dove parte la falla, per poi trovarla e tapparla. La sfida del libro è arrivare ad identificare l’origine nel nostro cuore di questi pensieri maligni e tutta la loro distruttività. Bisogna sempre vedere il pensiero contrario, ovvero qual è l’origine buona per capire a quale sorgente dobbiamo attaccarci per trovare la strada buona e uscire da questi incastri che tante volte ci schiavizzano. Per esempio il contrario della tristezza per Evaristo è la gioia, ed è curioso che la gioia in San Paolo non è uno stato d’animo che ti capita. Questo aspetto ci deve far riflettere perché noi oggi siamo molto “spontaneisti”, pensiamo che le cose ci capita di provarle, invece no le cose si scelgono. La Lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi dice “rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”. Come ci si può rallegrare per imperativo, sembra un’assurdità, sembra una cosa un po’ clericale. Invece la gioia è una scelta del cuore, dobbiamo sempre ricordarci che c’è una porta del nostro cuore che apre al bene, alla speranza, in fondo è come se in ogni fatto della nostra vita ci sia sempre una linea di luce e di tenebra. Pascal diceva “Dio ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuole credere e ha anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuole credere”, questo è un aspetto interessante perché c’è sempre da aprirsi, è un’opzione del cuore: se ci apriamo alla gioia la gioia arriva.

Come riconoscere la gioia?

La gioia è una grazia da accogliere, è un regalo che Dio offre, nel fondo del cuore la luce c’è sempre. La puoi trovare anche nelle persone più contorte, più degenerate. In noi c’è sempre una falla di male e un’entrata del bene. Sempre. E bisogna un po’ rinvenire la falla buona che c’è nel nostro cuore.

Nella prima parte del libro cerco di spiegare globalmente il combattimento spirituale come funziona spiegando cos’è l’origine di tutto ossia la grazia della vita, la grazia della creazione. Il fatto che la vita è una cosa bella per sua natura, anche essere vivi è una cosa importante e bella. In questa epoca tante volte arriviamo a dubitare addirittura sulla bellezza di vivere. Tanti giovani dubitano della bellezza della propria vita, io che costantemente combatto questo tipo di “fauna”, dico che i giovani hanno una tendenza a pensare male di se stessi. Ma bisogna pensare bene della propria esistenza ed è fondamentale capire la propria preziosità di se stessi.

Dall’altra parte c’è quello che i greci chiamano filautia cioè quello che noi un tempo chiamavamo l’amor proprio. Un padre della Chiesa questo termine lo definisce splendidamente come “l’amore di se contro se stessi”, cioè è un amore di me che mi distrugge, è un narcisismo che non fa il mio interesse, mi incastra, mi rovina, mi degenera, e la sua radice è la paura per noi stessi. La matrice armata del nostro cuore, la tendenza a temere per la propria incolumità ci porta a fare atti di autoprotezione disordinati e devastanti, e che tante volte diventano peccati di auto appagamento, di autoaffermazione, che sono le tragedie delle nostre relazioni e della nostra autogestione.

In questo libro lei ci ha messo anche la sua esperienza sacerdotale. Cosa ha scoperto in questi trent’anni di sacerdozio?

In questo lavoro ho messo tanto di me, soprattutto tanto della mia avventura come sacerdote, ovvero tutto quello che ho dovuto imparare e praticare nell’accompagnamento di tanti ragazzi nello sbocciare e nel diventare se stessi. Questo è il libro che completa la trilogia che ho scritto a seguito di una esperienza di accompagnamento dei ragazzi. Il primo libro fu “L’arte di ricominciare” cioè ripercorrere i sei giorni della creazione e ripartire dopo un momento distruttivo, o dopo un errore o un azzeramento, indicando come fare e quale protocollo seguire. Gli studi biblici mi davano contezza del fatto che il primo capitolo della Genesi non viene scritto all’inizio ma a un dato momento della storia di Israele; è proprio un precipitato della sapienza di Israele su come si ricomincia, qual è lo schema della realtà  e come si torna ad essere fedeli al proprio dna. Questo è un aspetto molto importante da non sottovalutare. Tante volte invece ho dovuto affrontare il tema della guarigione del cuore e così ho scritto il secondo libro “L’arte di guarire”, che ripercorrendo le tappe di una storia di guarigione quella dell’emorroissa che tocca il mantello di Gesù e guarisce, entrando nelle pieghe sapienti e profondissime di quella storia ho enucleato un protocollo di guarigione fruibile e sperimentato con i ragazzi. E poi è arrivato questo libro che è frutto di un tempo di predicazione vissuto con tanti giovani ma anche tanti adulti dove bisognava spiegare, una volta che ho ricominciato e una volta che sono guarito, qual è il quotidiano di questa vita, cioè l’assetto per non perdersi, come restare in una vita adulta, e bella. Peraltro il libro sorge anche da questo tipo di necessità: nella Ratio studiorum dei preti c’è pochissimo addestramento a questo tipo di argomenti.

Come si arriva all’ addestramento della libertà interiore?

Si tratta della libertà dei figli di Dio, di vivere da principi e non da sguatteri delle pulsioni disordinate, sguatteri di quella paura profonda collegata alla filautia, qui si tratta di capire un modo di approcciare una diversa postura di fronte alla vita spirituale. La realtà è che noi abbiamo offerto di fronte ai vizi questo tipo di strategia: un vizio è una cosa brutta e allora bisogna smettere. Allora si pensa che uno deve semplicemente opporsi di fronte al vizio dicendo: non lo fare. Ma questa è una tecnica non solo brutta ma anche fallimentare, non funziona. Il moralismo da che mondo e mondo non è solo brutto ma è inutile. Come si fa a tenere nelle briglie qualcosa che in realtà è una produzione propria? Dovrà combattere contro se stesso con una forma di scissione o di emiplegia spirituale? Il fatto è che noi abbiamo pensato che il combattimento spirituale è una sorta di castrazione, di strozzamento delle pulsioni a cui invece bisogna andare alle origini di queste pulsioni perché se io sono viziato vuol dire che ho l’abitudine a fare una certa cosa. San Tommaso dice che la ripetizione di un atto da l’abitudine ad un atto. Se l’atto è buono è una virtù, se l’atto è cattivo il vizio c’è. La ripetizione di un atto mi da l’habitus, ma come faccio a combattere l’habitus con la negazione? Come dice San Paolo nel capitolo settimo della Lettera ai Romani “io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me”. La negazione concentra l’attenzione proprio sul peccato, sulla cosa che non voglio fare, e che ci porta sempre a pensare a quello, si tratta di una forma nevrastenica di andare avanti. La nevrosi porta ad una battaglia che creerà disastri a volte scandalosi, inaccettabili, pertanto la strada giusta è quella di tornare all’autenticità, cioè la verità dell’uomo non è il male, ma è il bene; quando l’uomo ama tira fuori se stesso; è se stesso fino in fondo. Tornare all’origine non è un processo di castrazione ma di crescita, di autentificazione, di verità. Il problema non è che l’opposto dei peccati è una cosa giusta, l’opposto dei peccati è la verità, i peccati secondo l’etimologia della parola greca “hamartia” vuol dire “fallire il bersaglio”, “andare fuori mira”. Riscoprire la nostra pienezza, la nostra verità, tornare fedeli alla nostra bellezza è il vero combattimento per vincere la nostra battaglia.