Le fosse comuni dell’Isis: si faccia giustizia per ridare dignità ai morti

Ora c’è tutto un lavoro da fare: non ci sarà giustizia fino a che i fatti non saranno ricostruiti, fino a che gli assassini non saranno portati davanti ai giudici e responsabilità e punizioni non saranno stabilite. C’è un Tribunale penale internazionale che è preposto a fare questo lavoro. Le sue decisioni non riporteranno in vita i morti. Non cancelleranno dai cuori gli orrori vissuti. Ma permetteranno a chi è in vita di ricostruirsi un futuro nella verità.

Sono tutte uguali le guerre del mondo. L’atrocità è quasi banale nella sua manifestazione. L’ultima scoperta è dell’Associated Press: sono almeno 72 le fosse comuni lasciate dalle truppe dell’Isis in ritirata in Siria e in Iraq. La stima dolorosa dei corpi buttati lì senza nome e senza una degna sepoltura va dai 5.200 fino ad almeno 15.000 persone. Il loro numero purtroppo è destinato a crescere man mano che il territorio controllato dal Califfato si riduce. Dietro ad ogni corpo c’è una storia di martirio che si ripete, sempre uguale, sempre atroce: prima il rastrellamento, poi il trasporto forzato in zone isolate, l’esecuzione. E infine l’opera di un bulldozer sempre presente nella zona e pronto a scavare la fossa. Successe anche nella guerra dei Balcani, l’11 luglio 1995 quando l’esercito serbo-bosniaco riuscì ad entrare definitivamente nella città di Srebrenica. I maschi dai 14 ai 78 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per procedere allo sfollamento. In realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. Successe in Ruanda dove vennero massacrate più di un milione di persone in maniera pianificata e capillare. A Gikongoro, oltre 27.000 persone vennero massacrate senza pietà e la notte dalle fosse comuni il sangue uscì andando ad inumidire il terreno. Successe nella seconda guerra mondiale agli ebrei il cui olocausto è oggi la cifra di tutti i genocidi. Le guerre lasciano una valanga di cadaveri. E quando sono mosse dall’odio e dall’odio fomentato su base razziale, etnica e religiosa, la loro brutalità diventa ancora più violenta. La fossa comune è forse l’emblema dell’atrocità. Sono corpi nudi addossati gli uni contro gli altri in una massa informe di braccia e di gambe, dove è impossibile scorgere se sono donne o uomini oppure bambini. Sono l’espressione più vile del disprezzo per l’umanità, il limite che segna il confine ultimo: dove può arrivare l’odio dell’uomo contro l’uomo. Oltre quel limite c’è il silenzio, la polvere, l’omertà e l’abisso della morte. Ma se la storia è contrassegnata da questa sequenza di assurdità e orrori, quella stessa storia deve lasciare oggi una lezione per il futuro. Ed è una lezione di giustizia da rendere alle vittime, ai loro familiari, ai popoli a cui appartenevano. C’è tutto un lavoro da fare: non ci sarà giustizia fino a che i fatti non saranno ricostruiti, fino a che gli assassini non saranno portati davanti ai giudici e responsabilità e punizioni non saranno stabilite. C’è un Tribunale penale internazionale che è preposto a fare questo lavoro. Le sue decisioni non riporteranno in vita i morti. Non cancelleranno dai cuori gli orrori vissuti. Ma permetteranno a chi è in vita di ricostruirsi un futuro nella verità. Perché la storia insegna che i processi di riconciliazione e di pace sono possibili, ma solo se la verità dei fatti è stabilita e la giustizia è fatta. Solo se ai morti viene ridata la loro dignità.