L’infinitezza del nostro essere

L'uomo è scegliere tra la pienezza della finitudine o l’eternità nell’inesistenza

L’individualismo si è rivelato una pura astrazione. È decisamente acclarato che siamo tutti interdipendenti e che le nostre vite sono irrimediabilmente legate le une alle altre. Il comportamento di ciascuno di noi finisce per condizionare il destino altrui. Sbaglia chi crede che siamo “monadi senza porte nè finestre”, invero siamo persone in relazione, ovvero l’altro mi interpella responsabilmente. La capacità di immaginarci come un noi non è certo un automatismo, ma di certo è un movimento di cui non possiamo non cogliere la necessità e forse l’urgenza. Senza un noi organico siamo soli dinanzi al paradossale intreccio vita/morte della nostra esistenza umana. Rimuovere la morte dal nostro orizzonte significa svuotare le nostre vite di senso (Chiara Giaccardi, Mauro Magatti). La pandemia, ma diciamo più in generale il contesto anomico nel quale viviamo, ha palesato tale vulnerabilità e pertanto siamo chiamati a rendere tale tensione vita/morte un nodo di rigenerazione possibile. Scriveva Vladimir Jankélévitch “Solo ciò che muore è vivente … Dobbiamo pertanto scegliere tra la pienezza della finitudine o l’eternità nell’inesistenza. La morte vitale è ciò che rende appassionata la vita mortale” (in La mort, Flammarion, Paris, 1977, p. 450). Siamo più poveri e dunque proiettati nella convinzione di dover ripensare il senso del nostro essere in compagnia, di sperimentare nuove forme e nuovi ritmi delle nostre attività sociali. Le nostre esperienze diventino trasformative e non episodiche. Siano di rottura, rimandino, com’è nella etimologia del termine, ad un’idea di passaggio, di cambiamento. Un’esperienza che ci spinga ad uscire da noi stessi, a metterci in moto nella nostra relazione con altro da noi (Mauro Magatti). È davvero insostenibile l’idea delirante di un io che possa davvero non comprendere l’alterità. La relazione è sostanza, onnipresenza, va riconosciuta; bisogna darle forma. Contiene in sé un potenziale inestimabile di libertà a patto che non la si lasci passare, non la si ingabbi, ma si sappia esercitarla in “condizione di non sovranità” come ci insegna Hannah Arendt. L’altro in relazione ci riporta alla possibilità di trascenderci, la qual cosa significa essere disposti a modificare le nostre ermeneutiche interpretative, il nostro linguaggio, le nostre parole. Senza questo oltre-passaggio nessun cambiamento è pensabile. Viviamo un presente che ci inquieta, per ragioni economiche, politiche, sociali, sanitarie, e l’apertura verso l’altro lascia prefigurare la possibilità di affrontare con nuovi contenuti di senso vie possibili verso un mondo diverso. Già, un domani ancora ignoto, ma con la possibilità di affrontare in modo inedito paradossi che ci affliggono da tempo. Come direbbe Ernesto De Martino, di fronte alle crisi si apre la possibilità di una “odologia”, ovvero di una strada che dischiuda nuovi orizzonti lasciando dietro situazioni di “energia senza forma”. Non possiamo tornare indietro, saremmo di certo travolti dalla frustrazione, dalla rabbia, dalla depressione. Non abbiamo bisogno di normatività astratta, ma di relazioni forti in grado di sperimentare nuove forme sociali rassicuranti e rigenerative che trasformino il mondo in senso positivo e in maniera collettiva, superando l’attuale frammentismo sociale, pienamente consapevoli che l’individuo è il limite e rinnegare il limite significa destinarsi alla inconsistenza, alla dispersione e al conseguente caos. Non si potrà ripartire senza osare risposte di senso, a ragion veduta condivise, alla precarietà come dimensione ontologica. Le fragilità più volte ammantate di efficientismo, si mostrano senza travestimenti, sono compagne irrevocabili della nostra vita sociale. Si avverte, dunque, l’urgenza di una nuova direzione, senza cedere alle sirene incantatrici di una routinaria fiducia ormai evanescente. Patiamo forse, in uno stato ancora poco cosciente, il bisogno di una prospettiva verso un corpo sociale più inclusivo. Occorre una nuova forma di vita comunitaria che includa la dimensione del rischio, più volte insipientemente elusa, che ha determinato notevoli costi umani, sociali ed economici. Magari sostenuti dalla grande lezione di questa odierna drammatica storia: siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri. La nostra società è molto simile all’immagine senecana: una volta di pietre, destinata a cadere, se le pietre non oppongano vicendevolmente resistenza, ed è proprio per questo reciproco sostegno che essa si regge. Nessuno è monade. Nessuno può sperare di salvarsi rinchiudendosi nella propria roccaforte.

Abbiamo un comune destino. “Habeamus in commune: in commune nati sumus”, siamo nati per stare insieme. Le relazioni umane devono tornare ad essere centrali nel nostro cammino di vita. In esse trova salde radici la speranza di un nuovo tempo umano in cui davvero i percorsi e gli spazi sappiano incrociarsi e certi della infinitezza del nostro essere ci si sappia ritrovare e riconoscere come membri di una comunità.