Primo Piano
L’Italia è ancora un paese accogliente?
La tragica vicenda della morte del sindacalista maliano Soumaila Sacko raccontata dal connazionale Drame
Siamo in un piccolo paesino del reggino di pochi abitanti, qualche palazzo in riva al mare a pochi minuti da Reggio Calabria con vista mozzafiato sullo stretto di Messina. L’aria che si respira è quella di una piccola realtà del Sud, in cui tutti si conoscono e la vita scorre tranquilla. Drame e Fofana ci abitano da poco, da quando per loro stare a Rosarno è diventato troppo pericoloso.
L’omicidio di Soumaila Sacko, che hanno vissuto in prima persona, li ha costretti ad allontanarsi dalla tendopoli in cui vivevano, tra case in lamiera e interminabili turni di lavoro in campagna. Quando li incontro in un piccolo bar, ancor prima di lasciarli parlare, nei volti privi di speranza, negli occhi spenti e pieni di paura, leggo i segni di quella e delle altre tragedie della loro vita. La morte violenta dell’amico sindacalista, ucciso il 2 giugno scorso con un colpo di fucile sul tetto di una fabbrica dismessa, ha impresso un solco indelebile nella loro anima. L’italiano di Fofana è piuttosto stentato, Drame se la cava meglio. E’ lui a raccontarmi del lungo viaggio che lo ha portato in Calabria, della permanenza nei centri di accoglienza, della vita nella tendopoli abusiva a Rosarno.
Drame partiamo dall’inizio. Perché ti sei allontanato dal tuo paese d’origine, il Mali? Come sei arrivato in Italia?
In Mali facevo l’autista, ma quando mio padre è morto, ho cominciato ad avere dei gravi problemi con i miei fratelli che mi picchiavano fino a rompermi le ossa. Sono scappato prima in Algeria e poi in Libia dove ho lavorato in campagna per quattro mesi. Ero completamente solo, non parlavo mai con nessuno. La mattina lavoravo la terra, il pomeriggio pascolavo le pecore. Un giorno ne ho persa una. Erano oltre 200 pecore, averne una di meno non avrebbe cambiato niente. Ma la mia vita valeva meno di una pecora! Il mio “padrone” ha pensato che l’avessi venduta e ha minacciato di uccidermi. Sono stato qualche giorno da un mio amico sperando che la situazione si calmasse, ma continuava a cercarmi senza sosta per tutta la città (Gazra Bengasi). Sono dovuto scappare ancora. Il mio amico mi ha procurato un contatto con un libico che organizzava partenze in Italia. Sono stato prima qualche giorno in un centro, poi ci siamo imbarcati su un gommone. Ho passato tre giorni e tre notti in mare. Sono arrivato in Italia nel giugno 2014.
Come vedevi l’Italia prima di partire? Che idea ti eri fatto del nostro Paese?
All’epoca non mi interessava. Per salvarmi la vita potevo solo partire.
Cos’è successo dopo che sei arrivato?
Sono stato in Sicilia per 25 giorni, poi mi hanno mandato a Milano e da lì sono stato assegnato ad un campo profughi a Magenta per tredici mesi. La vita nel campo è stata terribile: ci davano cibo marcio e molta gente è stata male. Molti non venivano curati perché non c’erano medicine. Ho deciso di andarmene. Non volevo passare un anno e un mese fermo, senza lavorare, a dormire tutto il giorno. Non sono mai riuscito a non fare nulla, a non lavorare. Mi ripugnava l’idea di andare a rubare per sopravvivere. Sono andato a Torino a raccogliere frutta per un periodo, poi sono partito per Napoli dove mio fratello lavorava da un parrucchiere. Il parrucchiere mi dava 80 euro al mese. Il lavoro mi piaceva, ma come potevo vivere? Dopo Napoli sono arrivato a Rosarno.
E lì hai incontrato Soumaila. Come vi siete conosciuti?
Ci siamo conosciuti perché ero alla ricerca di un materasso da mettere a terra per dormire. Dopo tanto tempo la prima persona che mi ha teso una mano. Soumaila era buono con tutti, fino al suo ultimo giorno ha sempre aiutato tutti. Quando si riposava dal lavoro ci vedevamo, lui veniva a parlare con me o io andavo da lui.
Fino al 2 giugno, quando Soumaila è stato ammazzato.
Cos’è successo?
“Era un sabato. Ne io né Soumaila né Fofana eravamo andati a lavoro. Erano le tre del pomeriggio, mi serviva una lamiera per la mia baracca. Soumaila si è offerto di accompagnarmi in una vecchia fabbrica vicina, dove sapeva che potevamo trovarle. Siamo saliti insieme sul tetto quando d’un tratto abbiamo sentito uno sparo. Mentre cercavamo un modo per scappare ho visto un uomo che caricava un fucile. (A questo punto la sua voce, già bassa, diventa appena un filo). Poi ha sparato di nuovo. Il secondo proiettile ha colpito in pieno Soumaila che è caduto a terra; il terzo era per Fofana che è riuscito a salvarsi solo perché si è riparato dietro un pezzo di lamiera. L’ultimo colpo mi ha ferito alla gamba. Sono riuscito a raggiungere, strisciando a terra, un bosco vicino alla fabbrica. Quando Fofana mi ha trovato gli ho detto che dovevamo andare a vedere come stava Soumaila. Mentre Fofana andava a Rosarno a chiamare i carabinieri ho visto una casa abbandonata in cui abitava un senegalese a cui ho chiesto se avesse visto qualcuno sparare. Mi ha risposto che non aveva visto nessuno ma mi è sembrato impossibile perché la casa abbandonata dove stava era esattamente di fronte all’uliveto da cui l’uomo ci aveva sparato. Allora gli ho chiesto di accompagnarmi a soccorrere Soumaila, ma mi ha detto che lui non c’entrava nulla e che non voleva sapere niente di tutta quella faccenda. Poco dopo sono arrivate le ambulanze e i carabinieri. Mentre lo portavano in ospedale Soumaila era ancora vivo. E’ morto poco dopo. Oggi penso spesso che al suo posto avrei dovuto esserci io. Il mio amico è morto per aiutarmi. Il mio amico è morto per una lamiera”.
A. P. è stato arrestato dalla procura di Vibo Valentia con la presunta accusa di omicidio volontario per la morte del sindacalista maliano Soumaila Sacko. Fofana e Drame vivono oggi lontani da Rosarno, in un appartamento finanziato da alcuni membri dell’Usb Cosenza. Stanno pensando di allontanarsi dall’Italia che considerano oramai un Paese troppo pericoloso.
La vita nella tendopoli di San Ferdinando
La tendopoli di San Ferdinando a Rosarno conta oltre 700 presenze per lo più regolari. Sono immigrati che hanno i passaporti, i documenti, tutti i permessi del caso. Si tratta di strutture appositamente pensate per l’accoglienza e finanziate dal Comune e dalla Protezione civile. Ma poco più in là rispetto alle case di San Ferdinando inaugurate lo scorso anno, si intravede un universo parallelo, di immigrati irregolari, abitazioni di fortuna, abissi di povertà e di fame. E’ il mondo sommerso della baraccopoli dove Drame, Fofana e il loro amico Soumaila insieme ad altre centinaia di anime lottavano per sopravvivere. E’ quello che resta di un’umanità reietta e dimenticata da tutti. I migranti lì dormono per terra, si proteggono dagli uccelli con qualche pezzo di lamiera, mangiano quello che trovano e a volte, nei casi peggiori, per le malattie muoiono. Come Marcus Kante, ucciso da una polmonite troppo cara da curare. Il freddo, la pioggia o al contrario il caldo eccessivo possono essere nemici fatali per questi residenti. Nella baraccopoli però, i migranti di Rosarno ci passano solo la notte: le loro giornate sono scandite dal lavoro sfiancante nei campi. Dalle 8 alle 10 ore al giorno con un compenso di 25 euro totali. Quando sono fortunati. “Alcuni di loro – ci racconta Giuseppe Marra dell’USB di Reggio Calabria, che da anni svolge un’instancabile attività di monitoraggio dell’emergenza umanitaria nella piana di Gioia Tauro – hanno un contratto regolare, altri lavorano esclusivamente in nero. Il problema è che le buste paga sono sempre inferiori alle prestazioni dei migranti”. Secondo lui lo sfruttamento della popolazione africana nel Reggino è strettamente legato a un problema strutturale dell’agricoltura. “Il prezzo dei prodotti che il mercato nazionale impone – dice il sindacalista- è inferiore ai costi di produzione. Le piccole aziende sono costrette a raccogliere quanti più frutti possibile per riuscire a coprire le spese e stare al passo delle imprese più grosse. Il modo più semplice per farlo è incrementare le prestazioni dei dipendenti, riducendo al minimo i loro salari. Serve una presa di posizione decisa da parte delle istituzioni: se non intervengono con politiche concrete per tutelare le realtà agricole minori, non riusciremo mai a cambiare in maniera effettiva la vita di queste persone. Il resto sono solo chiacchiere”. (MS)
I dati ufficiali sull’immigrazione in Italia
Secondo i dati ufficiali del 31 dicembre 2017 del Viminale, l’immigrazione in Italia è in costante calo rispetto agli anni precedenti: rispetto a luglio 2016 gli sbarchi sono diminuiti del 33%, quando si attestavano intorno ai 181.436 di contro ai 119.310 del 2017. Sono di meno anche i delitti, con una riduzione percentuale nel 2017-2018 del 9 % rispetto al 2016. Crescono invece vertiginosamente le domande di asilo: 130.000 solo nel 2017 rispetto alle 123.000 dell’anno precedente. Il maggior numero di presenze in Italia, stando ai dati Istat 2016, lo fanno i rumeni, con cifre che si aggirano intorno al milione e 160 mila residenti, cui seguono albanesi (450.000) e marocchini (420.000). I migranti sono più uomini che donne, si concentrano più a Nord che a Sud e sono per l’8,2 % irregolari (Ismu, 1 gennaio 2017). Ma, come riporta il Sole 24 ore, gli extracomunitari non in regola sono diminuiti di oltre 150.000 persone rispetto a dieci anni fa (650.000 nel 2008 – 491.000 oggi). I rimpatri sono stati nel 2017 oltre 6.300, di contro ai 5.300 del 2016. Per quanto riguarda i soli flussi provenienti dall’Africa, nel gennaio di quest’anno il primato spetta agli eritrei (580) seguiti da pakistani (258) e tunisini (232). Nello stesso mese, dalla Libia sono partite in totale circa 2.600 persone. Nel gennaio 2017 erano quasi il doppio (più di 4000).