Lotta alla violenza di genere ed alle discriminazioni, i dati e le testimonianze

A Rende il convegno organizzato dalla Fidapa

“Noi non staremo zitte”; le parole di Franca Dora Mannarino, presidente del Distretto Sud- Ovest della Fidapa nel convegno organizzato dalla sezione di Rende, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. “A livello nazionale e internazionale la federazione sta a fianco alle donne con il progetto della “carta dei diritti della bambina”, sovvenzionando borse di studio per studentesse, con le “stanze dell’ascolto”, affrontando il problema delle spose bambine, con la lotta alle pubblicità sessiste, stando a fianco ai Centri antiviolenza in maniera concreta”, quanto specificato dalla presidente nel suo intervento. Educare alla relazione, alle differenze, promuovere un modello educativo che scardini i paradigmi della tradizione, educare i bambini e le bambine al rispetto, alla gentilezza superando i pregiudizi e glistereotipi di genere”, impegno della scuola auspicato da Loredana Giannicola, Provveditore agli studi della provincia di Cosenza. “La violenza contro le donne è la manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra uomini e donne”; quanto recita l’articolo 3 della Convenzione di Istanbul’ promossa dal Consiglio d’Europa, descritta nella sua relazione dalla direttrice del Centro Women ‘s Studies- Unical Giovanna Vingelli. “La Convenzione è uno strumento che analizza e propone agli Stati che aderiscono come affrontare il fenomeno della violenza di genere in maniera strutturale, attuando le quattro ‘P’, la prevenzione, la protezione, la punizione dei colpevoli e lepolitiche integrate, ovvero la rete”, ha sottolineato la professoressa. Approvata da tutto l’arco parlamentare del nostro Governo nel 2013, laConvenzione di Istanbul ha recentemente incontrato le resistenze di alcune forze politiche le quali sostengono che al suo interno vi siano definizioni pericolose, che possono incidere sull’autonomia degli Stati. “Il patriarcato è un sistema, una struttura sociale, che diventa dimensione culturale, che condiziona tutti coloro che vivono all’interno di questa struttura immateriale e simbolica, da almeno 5000 anni”, quanto sostenuto da Vingelli. “Mi chiamo Saleha Yakubi, sono nata in Afghanistan, sono arrivata inItalia due anni fa, sono una rifugiata, studio Sociologia l’Unical. La situazione attuale nel mio paese, sotto il nuovo governo talebano èdavvero terribile, le donne corrono un rischio molto serio ed hanno perso i loro diritti fondamentali”, le parole della giovane studentessa che nella sua testimonianza ha descritto la condizione femminile in Afghanistan. Nel paese di Saleha alle donne non è permesso uscire di casa o prendere i mezzi pubblici se non in compagnia di un parente maschio, le donne hanno perso il loro lavoro, a causa del governo dittatoriale dei talebani le organizzazioni che lottavano per i diritti delle donne sono state chiuse e la maggior parte delle attiviste corre il rischio di misure repressive da parte del regime. L’istruzione nel paese di Saleha è stata vietata alle donne, impossibile per loro frequentare scuole e università, solo le bambine possono studiare fino ai 12 anni, oppure possono iscriversi alle scuole religiose. I matrimoni precoci sono in forte,

preoccupante aumento e molti genitori sono costretti a vendere le proprie figlie a causa della povertà dilagante. Le donne afghane sono obbligate ad indossare il ‘burqa’, l’abito che le copre dalla testa fino ai piedi, per evitare severe punizioni o addirittura di essere arrestate. “È necessario che la comunità internazionale vigili sulla nostra situazione”l’appello di Saleha Yakubi al termine della sua prezioso intervento. Rompere i silenzi, stare accanto alle donne, ascoltarle e ragionare insieme a loro e non per loro su quelli che sono i percorsi individuali di autonomia e di rafforzamento delle loro scelte decisionali, favorire il raggiungimento dell’autonomia economica della donna, questi alcuni deiservizi offerti dal Centro antiviolenza ‘Roberta Lanzino’ descritti nell’intervento di Roberta Attanasio, presidente del Centro antiviolenza, nato nel 1989 il primo in Calabria ed uno dei primi in Italia. Roberta Attanasio, ci ha illustrato il Report 2022 dei dati raccolti  in prevalenza sul territorio cosentino e nel suo hinterland, ma che siriferiscono anche al resto del territorio regionale, essendo il Centro referente per la Calabria del numero gratuito 1522, istituito dal Consigliodei Ministri a sostegno delle vittime di violenza. 101 le donne accolte lo scorso anno di cui l’ 80% italiane, la quota di donne di nazionalità non italiana vede la presenza maggiore di brasiliane, dominicane ed ucraine. 89 le cosentine che si sono rivolte al Centro, l’età media è di 41 anni, il dato più alto è quello che riguarda ledonne separate e divorziate, a cui segue quello delle coniugate, poi le single, in fine le conviventi. Tutte le richieste di aiuto sono da parte di vittime di violenze all’interno della famiglia. Rispetto alla condizione lavorativa risulta che il 32% delle donne abbia un lavoro, il 6% lavora in nero, il 3% è una lavoratrice precaria, il 21% delle donne disoccupate o casalinghe; in merito alla condizione reddituale la maggior parte ha un reddito insufficiente, che potrebbe bastare per loro stesse, ma non per poter badare ai figli. Il 74% dei casi totali dichiara di aver subìto violenza psicologica, il 65% violenza fisica, il 18,8% violenza economica, sono stati registrati casi di violenza sessuale e stalking. Per ciò che riguarda la valutazione del maltrattante è emerso che l’età media è di 43 anni, la maggior parte sono occupati e di nazionalità italiana.

Delle donne che nel 2022 si sono rivolte al Centro, 45 hanno deciso di sporgere denuncia. “Purtroppo le donne spesso non vogliono denunciare perché non hannofiducia nella giustizia, hanno il timore che a seguito della denuncia possano essere esposte ad ulteriori forme di violenza ed anche perché, spesso, le donne subiscono una ‘vittimizzazione secondaria’ anche in ambito di giustizia”, quanto sottolineato dalla presidente Attanasio. Il centro svolge un servizio di consulenza legale sia civilistica chepenalistica ed affianca le donne nell’ottenimento del ‘reddito di libertà’Alle donne accolte viene offerta consulenza psicologica: “Noi diamo lapossibilità di partecipare a gruppi di auto-mutuo aiuto perché riteniamoche sia una forma che rafforza non solo la donna, ma tutto il gruppo”, leparole della presidente.Dietro ai numeri ed ai dati si nascondono i volti, le storie, i vissuti ditante, troppe donne che però, ad un certo punto del loro cammino,incontrano altre donne, le operatrici dei Centro ed insieme riescono acambiare il corso delle loro esistenze.È ciò che è avvenuto nel caso di Simona (nome di fantasia) la cui storiaci è stata raccontata da Vanessa Piluso, avvocata penalista, legale edattivista del Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” che ha assistitolegalmente la donna.Simona si rivolge al Centro nell’estate di qualche anno fa perché vittima datempo di maltrattamenti, nonché di violenza sessuale ad opera delcompagno, padre di una delle sue figlie. Le operatrici, effettuata lavalutazione del rischio, si rendono subìto conto della gravità del caso e

mettono Simona nelle condizioni di comprendere fino in fondo la suasituazione e decidere sul da farsi, sapendo che nel momento in cui leiavesse sporto la denuncia avrebbe potuto non tornare più a casa, magrazie all’aiuto del centro, trovare una casa rifugio, visto che non avevaparenti o riferimenti su cui contare.Di lì a breve, la donna si reca in Questura per sporgere denuncia e leviene garantita una sistemazione temporanea perché per la suaincolumità e per quella delle sue figlie viene organizzato un trasferimentofuori regione, grazie alla sinergia tra i Centri che fanno partedell’associazione ‘Dire’, Donne in rete contro la violenza, di cui il centroantiviolenza Lanzino è socio fondatore.Nonostante le difficoltà burocratiche ed i permessi di soggiorno nonaggiornati, si riesce a farle raggiungere la Sardegna dove viene accoltada un centro antiviolenza del territorio che la colloca in una casa rifugio,dove Simona e le bimbe rimangono per circa otto mesi.Grazie al lavoro delle operatrici che si occupano del caso, la donna iniziaad intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza e crea per sé eper le sue figlie un progetto di vita nuova, riesce ad averel’aggiornamento dei suoi documenti, ad ottenere la decadenza dellapotestà genitoriale del padre della bimba, iscrive le bambine a scuola edinizia a godere di una serie di servizi e di diritti. Col tempo Simona riescead ottenere anche il ‘reddito di libertà’, riconosciuto alle donne vittime diviolenza e viene immessa nel mondo del lavoro. A distanza di qualcheanno la donna ha un suo appartamento, un lavoro stabile, le bambine sisono inserite a pieno nella società ed a scuola, fanno attività sportiva edhanno stabilito una rete di relazioni affettive ed amicali.”Le operatrici mi hanno accolto e mi hanno fatto rinascere, adesso lemie figlie hanno un letto in cui dormire”, le parole usate da Simona nelraccontare il suo vissuto, riportate dell’avvocata Piluso che hasottolineato:” Questo è un caso di empowerment femminile, un’esistenzaricostruita, Simona ce l’ha fatta. Parliamo di una donna che non aveva lapossibilità di uscire da casa, non poteva svolgere alcuna attivitàlavorativa, le bambine non avevano neppure il pediatra e lei era vittimadi violenza domestica grave”.Dunque uscire dalla violenza si può. Attraverso un percorso diconsapevolezza della donna della propria condizione si può giungere,grazie al prezioso lavoro anche dei centri antiviolenza, alla costruzione di un progetto personalizzato adatto ad ogni donna e calibrato in base ai suoi desideri, alla sua volontà, alla sua libertà.