L’unità di anima e corpo nel dialogo tra Dante e Virgilio

Anima e corpo costituiscono un'unità inscindibile separabile solo concettualmente

Il dialogo tra Dante e Virgilio nel girone dei golosi (siamo alla fine del sesto canto dell’Inferno) è diuna profondità antropologica assai rilevante. I due poeti, dopo aver interagito con Ciacco,proseguono il loro cammino «toccando un poco la vita futura». È con questa espressione poeticasublime che il Sommo Poeta descrive la tematica che Virgilio, stimolato dalla curiosità dantesca, siaccinge a sviscerare. Dante quindi gli domanda: «Maestro, esti tormenti/ crescerann’ei dopo la gransentenza, / o fier minori, o saran sì cocenti?» (vv. 103-105). Dal punto di vista metafisico, infatti,c’è da dire che le anime con cui Dante si confronta sono pure forme (laddove forma è da intendersiin senso aristotelico, vale a dire come pura essenza). La domanda di Dante, che peraltro ha unalunga e assai complessa tradizione teologica (che tipo di sofferenza è quella che provano le animedei dannati?), è dunque legittimata dal paradigma antropologico aristotelico-tomista nel quale Dantes’inserisce completamente, secondo cui il principio formale – l’anima – non esaurisce tutta la naturaumana, ma ne determina soltanto una dimensione. È la materia, infatti, l’altro principio metafisicograzie al quale è possibile l’unione sinologica di anima e corpo. Questi due principi, si badi, nonentrano in rapporto secondo un modello riconducibile ad una giustapposizione estrinseca e posticciama costituiscono immediatamente un’unità inscindibile separabile soltanto concettualmente. Larisposta di Virgilio, dicevo prima, rimanda immediatamente Dante alla riconsiderazione delparadigma aristotelico-tomista («Ritorna a tua scienza») per un adeguato inquadramento dellaquestione. Dopo il Giudizio Universale ogni anima «ripiglierà sua carne e sua figura» (v. 98) etornerà in una situazione di perfezione. Difatti la condizione delle anime nel periodo escatologicointermedio fa sì che l’uomo o, meglio, ciò che di esso rimane viva in una situazione di radicaleincompletezza metafisica. Si tratta certamente di un tempo misterioso, impossibile da descriverecon gli strumenti della ratio naturalis, la cui durata peraltro risulta inintelligibile (la misurazione deltempo escatologico intermedio può essere calibrata in base alla misurazione del tempo umano?). Aben vedere anche la modalità del patimento risulta in questa fase intermedia abbastanza oscura(come può soffrire una pura forma?). Nel tempo intermedio la condizione umana è destrutturata, ilpiano della creazione, che prevede un’inscindibile relazione tra materialità e spiritualità, è rimessoin profonda discussione. Le anime vivono, per un tempo imprecisato, una condizione di mera

spiritualità più affine alla visione platonica che alle premesse dell’antropologia cristiana. Eppure ilmomento finale della riappropriazione del corpo è così importante per il pensiero cristiano chedurante il quinto Concilio Ecumenico (Canoni contro Origene, n. 11) è stato concluso che: «Sequalcuno dirà che il giudizio futuro significa la totale abolizione dei corpi, e che la fine della storiaè l’immaterialità e che nel mondo futuro non vi sarà più nulla di materiale, ma solo il pensiero, siaanatema». La morte, che si è introdotta nell’orizzonte della vita umana a causa del peccato, rompegli equilibri previsti dall’infinita sapienza di Dio. Tali equilibri si manifestano nell’unitarietà dellastrutturazione sinologica del cosmo (ogni forma ha la sua materia e in questo equilibrio permanefintanto che non sopraggiunge la corruzione del composto). La morte, dunque, frantuma questasituazione metafisica alla quale noi siamo abituati e ci inoltra in una dimensione nuova che la solaragione, senza l’aiuto della fede, fatica a concepire chiaramente. È possibile però comprendere finda ora qual è l’aspirazione massima delle anime, finanche di quelle dannate, che si trovanofrantumate e snaturate, deprivate di quella completezza propria della condizione umana. Standodunque alle parole di Virgilio esiste nell’anima umana un’inclinazione che le fa desiderare ilricongiungimento al proprio corpo (sebbene il corpo che ogni anima riavrà dopo il GiudizioUniversale sarà ben diverso da quello a cui era abituata nello stato mortale). Ecco le parole diVirgilio: «Tutto che questa gente maladetta / in vera perfezion già mai non vada, / di là più che diqua essere aspetta» (vv. 109-111). Questo desiderio che comunque persiste addirittura ancheall’Inferno, infimo et abiectissimo loco come lo definisce Tommaso d’Aquino, è una testimonianzapreziosa di umanità che resiste, contro ogni previsione, anche nella condizione drammatica elacerante della sofferenza eterna. Le anime soffriranno di più quando recupereranno anche ladimensione corporea poiché il tipo di sofferenza che esse provano in quanto puri spiriti èpresumibilmente di grado inferiore rispetto all’intensità della sofferenza che sarà percepita da unarealtà ricostituita e arricchita anche della dimensione corporea. Eppure, nonostante questo aumentodella sofferenza le anime – spiega Virgilio – desiderano la condizione di unitarietà e completezza(«di là più che di qua essere aspetta»). Mi piace pensare a questo desiderio come ad un’ultimatestimonianza di umanità che finanche le anime dei dannati sono ancora in grado di provare.Immagino altresì che proprio questo desiderio risulti straziante per le anime dannate e sofferenti,poiché forse esse sanno che la condizione che raggiungeranno con la riappropriazione del corpo,dopo il Giudizio Universale, sarà comunque per sempre un’immagine sbiadita della realeperfezione.