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“Migranti ambientali difficili da identificare. Ma sono già milioni”
Dal 2008 al 2014, oltre 157 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per eventi meteorologici estremi. Tra le cause che costringono famiglie e comunità a fuggire ci sono soprattutto, per l'85% dei casi, tempeste e alluvioni. Si stima che nel 2050 saranno 250 milioni e ben 50 provenienti dall'Africa. L’opinione di padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli di Roma.
Nel diritto internazionale ancora non esistono. Eppure sono una realtà. Anzi, una realtà in continua crescita. Sono i migranti ambientali, le persone costrette a fuggire dal loro paese di origine a causa di fenomeni climatici e ambientali che hanno reso impossibile la vita in patria. Secondo un recente rapporto curato da CeSPI, Focsiv e Wwf Italia, dal 2008 al 2014, oltre 157 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per eventi meteorologici estremi. Tra le cause che costringono famiglie e comunità ad abbandonare le proprie abitazioni ci sono soprattutto, per l’85% dei casi, tempeste e alluvioni. Si stima infine che nel 2050 i migranti ambientali saranno 250 milioni e ben 50 provenienti dall’Africa. Nonostante le stime e le ricerche, non esiste ancora a livello internazionale e nella giurisprudenza la qualifica e l’identificazione dei migranti ambientali. Padre Camillo Ripamonti è presidente del Centro Astalli di Roma, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati-JRS che da oltre trent’anni è impegnato ad accompagnare, servire, difendere i diritti dei rifugiati e degli altri migranti forzati. “Non c’è dal punto di vista giurisprudenziale – conferma Ripamonti – una individuazione e quindi una tutela a questo tipo di migranti come pure non c’è una definizione univoca di chi sono”. Quali sono le maggiori difficoltà?“Uno dei problemi è la difficoltà a individuare con precisione l’evento. Di fronte a fatti catastrofici, come un alluvione o un tifone, è molto semplice indicare l’evento ambientale per il quale la persona è stata costretta a spostarsi. Per eventi invece di lungo periodo – come per esempio il fenomeno delle desertificazioni o delle siccità che interessano in modo particolare alcuni paesi dell’Africa – è più difficile individuare una causa che abbia determinato un cambiamento in un territorio e che poi abbia costretto una persona ad allontanarsi da quel luogo. C’è poi anche la difficoltà a identificare le motivazioni che spingono le persone a fuggire: mentre sull’evento catastrofico, il rapporto causa-effetto è immediato, nell’evento di lungo periodo, le cause che spingono le persone a migrare possono essere mescolate tra loro. Per esempio: il terreno sul quale la persona lavorava è diventato infertile o più secco, ha prodotto meno e questo calo della produzione lo ha spinto a spostarsi. Legare però l’infertilità del terreno ad eventi climatici e ambientali specifici e di lunga durata è molto difficile. Per cui la definizione usata in questo caso è quella di migrante economico”. Ma è così importante definire a livello giuridico il migrante?“Il rischio è che a farne le spese siano le persone che scappano. Il Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti qualche anno fa aveva elaborato un documento nel quale si proponeva di parlare di ‘rifugiati di fatto’: sono persone che comunque scappano da qualche pericolo. Ho come l’impressione che negli ultimi tempi la necessità di incasellare le persone in una definizione stia diventando un alibi per i governi per continuare nelle politiche di difesa, anziché elaborare politiche di lungo respiro. Un modo per dire: ok, il rifugiato che scappa dalla guerra io lo accetto ma un migrante che invece scappa per motivi economici, lo rimando indietro”. Il diritto, però, fa il suo dovere. Qual è la strada allora più indicata da praticare?“Le persone in condizioni di disperazione tentano qualsiasi via pur di fuggire. Le possiamo quindi incasellare, ma certo non impediremo loro di scappare, soprattutto se le condizioni dalle quali partono sono anche a livello economico drammatiche. Le migrazioni non si ridurranno e quelle ambientali tenderanno ad aumentare”. Sta dicendo che il diritto a fuggire deve essere garantito a livello internazionale a prescindere dal tipo di pericolo dal quale si fugge?“Sì, anche perché diventa sempre più difficile capire – e la storia ce lo dimostra – le motivazioni che spingono le persone a migrare. Sono sempre miste: anche nei territori in cui i cambiamenti climatici hanno già fatto vedere i loro effetti, subentrano quasi sempre le guerre per l’approvvigionamento dell’acqua e l’accesso alle risorse naturali. Quindi anche lì: una persona scappa, ma per quale motivo?”. Nel 2050 saranno 50 milioni i migranti ambientali provenienti dall’Africa. Ma l’Italia è pronta ad affrontare una simile emergenza?“Io credo che nella società civile ci sia una sensibilità che va in questa direzione ma ho l’impressione che non sia ancora abbastanza diffusa. Credo anche che il tema delle migrazioni possa essere l’occasione per sensibilizzare le persone al tema dell’ambiente e agli effetti concreti che il cambiamento climatico sta avendo sulle persone. È chiaro che non possiamo perdere tempo. I cambiamenti climatici irreversibili sono alle porte e dobbiamo fare presto. Occorrono tempi lunghi per cambiare una mentalità e una cultura e quindi non abbiamo più tempo da perdere”.