Mogherini: “In Siria serve una risposta politica. L’Europa può aiutare a mettere fine ai conflitti e costruire la pace”

L'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell'Ue analizza le principali sfide di un'epoca tormentata da guerre, instabilità regionali, terrorismo, migrazioni... La cooperazione come metodo comunitario per "rispondere alle minacce e prevenirle". "Per noi il ricorso agli strumenti militari è sempre inserito in una strategia più ampia, perché sappiamo bene che nessuna crisi può essere risolta con la forza". Sulle migrazioni no ai muri, bisogna "agire insieme". Attenzione prioritaria alle persone e alla loro vita.

Lo sguardo di Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune e vice presidente della Commissione europea, non ha confini. Nel senso che, per ruolo e per passione politica, tiene costantemente d’occhio gli scenari globali con i quali l’Unione si confronta ogni giorno. Romana, classe 1973, europeista fin dagli studi universitari con alle spalle un Erasmus in Francia, è stata deputata e ministro degli Affari esteri nel 2014, prima di assumere, dal 1° novembre di quell’anno, la responsabilità di rappresentare l’Unione europea nel mondo. Volentieri si sofferma a riflettere su alcuni grandi temi dell’attualità internazionale.

Partiamo dalla cronaca. La minaccia del terrorismo non ha confini e colpisce tanto in Europa (i casi recenti di Londra e Stoccolma) quanto in altri continenti (come segnalano le tragiche vicende delle stragi nelle due chiese copte in Egitto della Domenica delle Palme). Ritiene che sia possibile concretizzare una forma di risposta, il più possibile efficace, mediante una stretta collaborazione su scala internazionale?Sì, è quello che abbiamo iniziato a fare: scambio di informazioni sia all’interno dell’Unione europea sia con i principali partner internazionali, e una cooperazione costante per rispondere alle minacce e prevenirle. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che molte risposte vanno date anche a livello nazionale, per evitare la radicalizzazione di giovani che non trovano radici o prospettive nelle società in cui vivono. E che sono pienamente cittadini europei.

L’approccio securitario non basterà mai a risolvere il problema, serve la prevenzione.

Anche su questo abbiamo iniziato a lavorare insieme con i Paesi che hanno esperienze da condividere.

Al di là dei confini Ue permangono molteplici situazioni di violenza, conflitto, instabilità politica, che generano lutti e sofferenze a milioni e milioni di persone. Sul caso della Siria quali le sembrano, anche alla luce della conferenza promossa a Bruxelles a inizio aprile e dei successivi eventi, le possibili vie d’uscita?L’Unione europea è fermamente convinta che non possa esservi una soluzione militare al conflitto in Siria. Lavoriamo per la pace e per un accordo politico tra regime e opposizione siriana che, sotto l’egida dell’Onu, porti a una transizione. La Siria di domani, per essere in pace, dovrà garantire a ogni suo cittadino di sentirsi sicuro e libero nel proprio Paese, indipendentemente dal credo religioso, dall’orientamento politico, dall’identità culturale. Questo è ciò cui l’Ue lavora, sostenendo pienamente e attivamente i negoziati avviati a Ginevra, e mantenendo un dialogo costante con tutti i Paesi della regione, per identificare un terreno comune sul futuro della Siria. L’unica via d’uscita è questa: un reale cessate-il-fuoco, garantito da chi ha influenza diretta su chi combatte sul terreno; un accordo politico che avvii una transizione; accesso pieno agli aiuti umanitari; l’inizio di un lavoro di stabilizzazione, ricostruzione e riconciliazione del Paese. L’Unione europea non è tra gli attori militari del conflitto. Il nostro lavoro si concentra sul piano politico, umanitario e sulla futura ricostruzione. Su ognuno di questi terreni, l’Ue è centrale.

Sempre più spesso si sente parlare di “difesa comune europea”. Tema complesso che riguarda la sicurezza interna, le pressioni esterne sui confini Ue (vengono in mente Russia e Turchia), il ruolo delle grandi potenze militari a partire dagli Stati Uniti. I Paesi Ue come si stanno orientando in questo settore? È davvero possibile una nuova strategia di sicurezza e difesa a livello comunitario?Non è solo possibile: è già una realtà. Nel corso degli ultimi nove mesi abbiamo adottato una nuova strategia comune per la politica estera, di sicurezza e di difesa, la Global Strategy, e abbiamo iniziato a tradurla in azioni concrete. Nel campo della sicurezza e della difesa comune, per esempio, abbiamo già istituito a Bruxelles un “Military Planning and Conduct Capability”, ovvero un unico centro di coordinamento di tutte le missioni militari di addestramento dell’Ue. E andremo avanti, con altre decisioni concrete, nei prossimi mesi. L’Unione europea non è solo “soft power”, abbiamo già ora 16 missioni e operazioni Ue, dall’Africa al Mediterraneo. Ma per noi, l’uso di strumenti militari è sempre inserito in una strategia più ampia, perché sappiamo bene che nessuna crisi può essere risolta veramente con la forza. Per l’Unione europea sia il soft sia l’hard power sono sempre al servizio della pace.

I flussi migratori impensieriscono, sotto vari profili, l’Unione europea, creando non di rado divisioni tra i Paesi membri in relazione all’accoglienza di chi fugge da guerre e fame. Ma, alzando lo sguardo, un risposta di lungo termine alle migrazioni non può che venire da un vero sviluppo dei Paesi in cui si originano i flussi. Come si sta muovendo l’Ue in questo ambito?Innanzitutto ci stiamo finalmente muovendo come Unione europea, dopo decenni in cui la competenza si era lasciata ai singoli Stati. Abbiamo avviato partenariati con i Paesi di origine e di transito, soprattutto in Africa: per smantellare insieme le reti criminali che trafficano esseri umani; per offrire prospettive di vita e di lavoro nelle comunità di origine; per proteggere e salvare vite; per aprire canali regolari di migrazione. Le migrazioni sono un fenomeno globale, che possiamo gestire solo insieme, attraverso un partenariato globale. La risposta dell’Europa non sono i muri, ma la cooperazione.

La pace è il primo e grande obiettivo che mosse i “padri fondatori” a dar vita al progetto europeo. L’Ue, oggi, si può ancora considerare una “potenza di pace”?Certamente. La pace all’interno dei nostri confini resta la principale conquista dell’Europa unita, un obiettivo raggiunto grazie all’integrazione europea dopo secoli di guerre tra di noi. E la pace resta l’obiettivo da raggiungere al di fuori dei nostri confini, dalla Siria alla Libia, dalla Palestina all’Africa.

Proprio perché ha conosciuto la distruzione della guerra, ed è riuscita a uscirne, l’Europa può aiutare a mettere fine ai conflitti e costruire la pace.

La ricetta è semplice, anche se applicarla è faticoso: la ricerca costante di soluzioni comuni, di punti di contatto, di vie d’uscita che consentano non a una parte di vincere contro l’altra, ma a tutti di trarre un beneficio dalla fine della guerra. È questa la lezione europea: cooperare è più conveniente che combattersi. E poi, l’attenzione prioritaria alle persone e alla loro vita, alle comunità: la prevenzione dei conflitti, l’investimento in aiuti umanitari, la cooperazione allo sviluppo, la promozione dei diritti. La pace non è solo assenza di guerra, si costruisce.