Attualità
Nella crisi siriana la diplomazia attende il vincitore sul campo
Il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e docente di Studi strategici alla Luiss e alla Link Campus University di Roma analizza i rapporti di forza e le strategie dei diversi attori dopo la discesa in campo di Putin. Sul futuro dell'Isis: ''Teoricamente può essere vinto solo con l'impiego di forze di terra. Ma le opinioni pubbliche occidentali sono contrarie''. A dividere c'è poi il destino di Assad.
È passato poco più di un anno (agosto 2014), da quando è cominciata la campagna della coalizione internazionale, a guida Usa, contro lo Stato islamico (Isis) in Siria e Iraq. Secondo dati forniti dal sito Airwars, i raid aerei finora sono stati 6.842, e i jihadisti morti, stando alle stime della coalizione, sarebbero 15mila. Tuttavia la situazione sul campo continua a segnare uno stallo, i piani occidentali non sembrano sortire gli effetti sperati e adesso è scesa in campo anche la Russia. La domanda, a questo punto, è lecita: l’Isis sta vincendo o sta perdendo? Un impero delle tribù. “La forza dello Stato islamico – risponde il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e docente di Studi strategici alla Luiss e alla Link Campus University di Roma – è quella di aver saputo offrire una soluzione politica al problema sorto dall’indebolimento degli Stati creati dalle potenze coloniali dopo la Prima Guerra mondiale e dal riemergere delle tribù. Uno Stato transnazionale, una sorta di impero delle tribù, nella fattispecie sunnite, che in esso hanno trovato protezione contro la mezzaluna sciita iraniana”. Oggi l’Isis controlla una vasta area in Siria e Iraq nella quale ha imposto la Sharia: “è un territorio vulnerabile tanto da permettere alle forze occidentali di colpire”, spiega l’esperto che pure dubita sull’efficacia dei raid aerei perché “le regole di ingaggio sono limitative per evitare vittime civili e quindi il malcontento della popolazione. Si bombarda nel deserto o solo quando ci sono colonne visibili del Califfato. Raqqa, la roccaforte Isis, non è stata colpita per questo motivo”. Ma da qui a dire che l’Isis stia vincendo ce ne corre. Opinione di Jean è che “difficilmente l’Isis potrà sopravvivere e consolidarsi anche alla luce delle divisioni interne tra i movimenti jihadisti”. Una fine segnata, dunque, anche se non immediata. “Teoricamente – dice il generale – l’Isis può essere vinto solo con l’impiego di forze di terra. Ma le opinioni pubbliche occidentali sono contrarie. Così la coalizione Usa deve affidarsi ai peshmerga curdi siriani e iracheni e alla capacità di organizzare in Iraq una Guardia nazionale che comprenda anche tribù sunnite contrarie all’Isis”. Speranze di vittoria potrebbero venire anche dalle “milizie sciite” inquadrate nei pasdaran iraniani guidati dal generale Suleiman. Il destino di Assad. Ma c’è un’altra partita che si sta giocando nello scacchiere siriano ed è quella contro Assad. Gli Usa puntano anche a defenestrare Assad e a circoscrivere l’influenza dei suoi due tradizionali alleati, l’Iran e la Russia. Quest’ultima è ben risoluta a restare in Siria come testimonia il recente rafforzamento militare sul terreno. “La sua presenza non è una novità – ricorda Jean – in quanto la Russia ha sempre inviato al regime di Assad armi e addestratori. Assad oggi sopravvive grazie ai soldi iraniani e alle armi russe. Per capire meglio le mosse della Russia – avverte l’esperto – bisognerà sentire ciò che Putin dirà alla prossima assemblea dell’Onu e allora vedremo come questa presenza in Siria sarà compatibile con le reazioni americane, israeliane e di Paesi sunniti, come Arabia Saudita e Egitto”. Per quanto riguarda la posizione di Israele il generale non ha dubbi: “ciò che interessa Israele sono le colline del Golan, già in suo possesso, che riforniscono di acqua il Paese. Le vere preoccupazioni israeliane sono evitare che le armi russe di nuova generazione, missili contraerei e terrestri, non vadano agli Hezbollah libanesi e che la Siria non cada in mano allo Stato Islamico”. Ambigua appare invece la posizione di un altro attore regionale, la Turchia del presidente Erdogan, le cui “scelte sono influenzate dalla politica interna”. Deriva da qui “la posizione dura di Erdogan nei confronti sia dei curdi del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan (l’esercito turco ne ha uccisi da luglio a metà settembre circa 1200, ndr.), sia dell’Hdp, movimento filo curdo che con l’entrata in Parlamento lo scorso 7 giugno, gli ha impedito di avere la maggioranza assoluta dei seggi. Quello turco è un gioco molto pericoloso in quanto la sua politica del ‘Nessun nemico alle frontiere’, è fallita. Oggi la Turchia deve guardarsi oltre che dai curdi e dallo Stato Islamico, anche dalla Mezzaluna sciita (zona influenza iraniana) che blocca il programma neo-ottomano di Erdogan”. Tra tanti attori che si muovono in questa guerra ‘sirachena’ resta ancora spazio per una soluzione diplomatica? Il realismo del generale Jean qui emerge in tutta la sua chiarezza: “una guerra è sempre in funzione di una soluzione diplomatica e politica. Le guerre mondiali sono terminate con trattati e rese incondizionate. Il problema è che il coordinamento tra forza militare e diplomazia non è più nella cultura dell’Occidente. Ci siamo culturalmente smilitarizzati e così facendo abbiamo perso la consapevolezza che la diplomazia senza la forza si riduce a chiacchiere. Anche un bombardamento può essere una chiave diplomatica per pressare la controparte ad accettare le nostre condizioni. Fintanto che in questa guerra non ci sarà una forza che sovrasta l’altra sarà difficile che la diplomazia ottenga risultati. La diplomazia deve sancire la situazione sul terreno, ovvero la vittoria di una parte sull’altra. Triste dirlo ma è così”.