Raffaello il grande, il pittore che superò l’orizzonte umano

Nacque e morì il venerdì santo. Un piccolo saggio a 500 anni dalla morte della nostra giornalista che ha curato per il National Geographic Storia lo speciale dedicato all'illustre pittore italiano

Come ci ricorda il letterato Pietro Bembo in un epitaffio su Raffaello, «venne a mancare nello stesso giorno in cui nacque, nell’ottavo giorno prima delle idi di aprile del 1520 (nda. cioè il 6 aprile)». Ricorre, infatti, in questi giorni il cinquecentesimo anniversario della morte del “divin pittore”. Interessante notare che l’evento quest’anno cade nella Settimana Santa, così come avvenne anche nel 1520. Alcune fonti, infatti, insistono molto sul fatto che Raffaello morì di Venerdì Santo, cercando sottilmente un parallelismo con la morte di Cristo, così da sottolineare l’aura di “divino” che si era creata attorno al pittore, grazie alla bellezza e alla delicatezza delle sue opere. Aggiungendo che anche la sua morte avvenne in giovane età (era nato nel 1483) e la coincidenza con la data di nascita (anche se secondo altre fonti sarebbe nato il 27 marzo), il gioco fu presto fatto. Fin da subito Raffaello Sanzio divenne un’icona del suo tempo, capace di fondere delicatezza e tecnica, uno dei primi a riconoscere il valore dell’archeologia e a dettare la “maniera” di fare arte alle generazioni future.

Era nato a Urbino da Giovanni Santi, un pittore di discrete qualità, e da Magia Ciarla, di cui non abbiamo molte notizie, ma sappiamo che morì quando il figlio aveva circa otto anni. Fu in questo periodo che il padre lo mise a bottega da uno degli artisti più in voga del tempo, Pietro Vannucci detto il Perugino. In verità, è solo Giorgio Vasari a riportare questa notizia e non ci sono altre evidenze documentarie. Certamente però Raffaello studiò le opere del Perugino, come si evince da alcuni parallelismi stilistici. La prima testimonianza sicura che lo riguarda è un contratto per una pala d’altare in cui è citato come “magister” a soli diciassette anni. Seguì una rapidissima ascesa artistica tra Perugia, Firenze e altre zone dell’Italia centrale, fino al 1508 quando papa Giulio II lo convocò in Vaticano. Il pontefice aveva deciso di circondarsi di tutti gli artisti più quotati del tempo per far decorare i suoi nuovi appartamenti, ma quando vide la prova di Raffaello, non solo li licenziò, ma ordinò anche di cancellarne i lavori per affidare tutto all’urbinate. Nacquero così le famose “Stanze Vaticane” che occuparono Raffaello fino alla fine. Anzi non riuscì neppure a vedere il lavoro finito, infatti, l’ultima Stanza, detta “di Costantino” fu realizzata dai suoi allievi, basandosi sui suoi disegni. Fu molto apprezzato da papa Giulio II e anche dal suo successore Leone X che li ritrasse entrambi. Raffaello, infatti, ha lasciato molti ritratti sia d’illustri committenti, sia semplicemente di amici, come nel caso dell’intellettuale Baldassarre Castiglione. I ritratti, insieme a varie raffigurazioni della Madonna, rappresentano il genere più esteso dei suoi soggetti. Raffaello fu una persona molto affabile. Specialmente a Roma si circondò di amici, ma anche di numerose amanti. La tradizione vuole che fosse di bell’aspetto e di atteggiamenti “libertini”, ma sempre la tradizione sostiene anche che abbia avuto un solo vero amore, Margherita Luti. Raffaello l’ avrebbe effigiata in numerosi dipinti, tra cui nelle fattezze di Galatea nella casa dell’amico Agostino Chigi e nel famoso ritratto “La Fornarina”, dal soprannome della ragazza, perché figlia di un panettiere. Proprio lei l’avrebbe accompagnato fino alla morte, avvenuta dopo una lunga febbre (per Vasari sarebbe stata causata dai suoi “eccessi amorosi” – forse un eufemismo per la sifilide –, ma probabilmente è solo una diceria) mentre stava completando la “Trasfigurazione di Cristo”. Tutti rimasero attoniti. Si racconta che alla sua morte Leone X fu colto da disperazione e che addirittura il cielo si oscurò e si aprì una crepa nel palazzo vaticano. Una vita breve ma realmente intesa, che ha cambiato il corso della storia dell’arte tanto che, per riprendere le parole dell’epitaffio di Bembo, «la natura, finché visse, temette di essere vinta e, quando morì, temette di morire con lui».