Rapporto Caritas – Migrantes: sono i migranti a sviluppare l’Italia

Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, e Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana presentano il 24° rapporto. Emerge il protagonismo, come "attori di sviluppo", di quanti scelgono il nostro Paese per costruirsi un futuro. La denuncia: "La storia dell’immigrazione italiana è caratterizzata da una continua e costante interpretazione negativa ed emergenziale del fenomeno"

Ribaltare la prospettiva per vedere i migranti come “attori di sviluppo”. È quanto invitano a fare nell’introduzione del nuovo “Rapporto immigrazione Caritas-Migrantes”, monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, e monsignor Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana: la presentazione del 24° rapporto avviene oggi, a Milano (ore 11) presso il Conference Center di Expo, nell’ambito di un convegno intitolato “I migranti e il cibo. Dallo sfruttamento lavorativo all’imprenditoria etnica”. Vi prendono parte, fra gli altri, il neo presidente di Caritas Italiana, cardinale Francesco Montenegro, e il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino. Persone attive e propositive. L’ampio documento muove da una riflessione di Perego e Soddu sul profilo e il ruolo dei migranti che giungono in Europa partendo da Paesi lontani e per le più svariate ragioni: dalla ricerca di un lavoro alla prospettiva di fuggire da guerre e povertà assoluta. Delinea poi una panoramica dei flussi migratori nel contesto internazionale ed europeo, per focalizzarsi subito dopo sulla realtà italiana, certamente quella più esposta agli arrivi da Africa e Medio Oriente segnati da fame, sottosviluppo, instabilità politica, conflitti (leggasi Isis), persecuzioni etniche e religiose. Il Rapporto, specificano gli stessi Perego e Soddu, guarda però il migrante come a una “persona attiva e propositiva” in grado di “contribuire allo sviluppo del Paese” di approdo. “Il più delle volte si sente parlare e si descrivono i migranti come ‘quelli che chiedono’, ‘gente a cui dare’, poiché ‘in stato di bisogno’. Dall’esperienza maturata in tanti anni di servizio”, Caritas e Migrantes hanno invece “voluto invertire la prospettiva e raccontare quanto l’Italia e gli italiani ricevono dai migranti che hanno scelto o continuano a scegliere il territorio italiano come meta di emigrazione”. Dalla storia all’oggi. È chiaro che la chiave di lettura offerta dai direttori di Caritas e Migrantes non piacerà – o addirittura dispiacerà – a molti: soprattutto politici, ma anche giornalisti e tantissimi comuni cittadini che hanno fatto della presenza straniera un’ossessione, una fobìa che si autoalimenta, oppure una scusa per scaricare su altri le proprie, anche legittime, rivendicazioni (a partire dalla mancanza di lavoro). Perego e Soddu infatti riconoscono: “La storia dell’immigrazione italiana è caratterizzata da una continua e costante interpretazione negativa ed emergenziale del fenomeno, come a rifiutare gli ultimi quarant’anni di storia nazionale che è stata scritta inevitabilmente insieme ai migranti, divenuti ormai parte integrante e strutturale dei territori, demograficamente attiva, economicamente produttiva, culturalmente vivace e religiosamente significativa, indispensabile al futuro di un Paese altrimenti destinato a spegnersi inesorabilmente”. Inutile peraltro negare che i fenomeni migratori, siano essi “in entrata” come “in uscita”, generino problemi o novità non sempre positive, spalancando semmai la doppia prospettiva del rifiuto-chiusura nel Paese di destinazione, oppure la linea diametralmente opposta dell’integrazione, benché complessa e mai scevra da ostacoli, da parte della società che accoglie. Del resto è questo il leitmotiv degli attuali, non di rado incoerenti tentativi di costruire una politica migratoria comune a livello di Unione europea. I numeri. Ma quante sono le persone che, nel mondo, vivono in un Paese diverso da quello d’origine? Nel Rapporto, steso utilizzando dati nazionali, europei e provenienti dall’Onu, si chiarisce che a fine 2013 erano ben 232 milioni, mentre nel 1990 la cifra si assestava a 154 milioni. Questo considerando solo le migrazioni per così dire “regolari”, ovvero omettendo i migranti “senza documenti”, che dovrebbero essere non meno del 10-15% sul totale dei flussi internazionali. Una parte significativa della popolazione del pianeta è dunque in movimento, soprattutto con una direttrice Sud-Nord. I 10 Paesi che accolgono il maggior numero di migranti sono – con qualche sorpresa – Stati Uniti, Federazione russa, Germania, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Regno Unito, Francia, Canada, Australia, Spagna. L’Italia si assesta all’11° posto, con i suoi 5 milioni di “ospiti”, pari all’8% della popolazione complessiva. L’Ue nel suo insieme accoglie invece 35 milioni di migranti su 500 milioni di cittadini. Nel Belpaese. Il Rapporto Caritas-Migrantes mette quindi in luce il contesto italiano, soffermandosi ad analizzare le nazionalità estere maggiormente presenti nella penisola (Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina…), le famiglie straniere, i matrimoni fra immigrati e quelli “misti” (in netta crescita), la realtà anagrafica degli immigrati, che sono per lo più giovani (con migliaia di minori non accompagnati) e per metà donne. Puntuale anche l’analisi delle attività professionali svolte dagli immigrati (almeno di quei 2,5 milioni che un lavoro lo hanno trovato): dai servizi personali – con in testa le “badanti” – agli alberghi-ristorazione, fino all’edilizia e all’agricoltura. Un ulteriore capitolo sarebbe in questo caso da aprire rispetto allo sfruttamento e al lavoro nero in cui molto spesso cadono gli immigrati, un male endemico dell’economia tricolore. Altri focus si concentrano sulla “scuola multietnica”, sui “nuovi cittadini”, su “reati e carcere”, forse uno dei settori in cui stereotipi e pregiudizi si moltiplicano con maggiore facilità. Ulteriori capitoli del Rapporto, infine, sono dedicati al quadro geopolitico “tra crisi e migranti”, al “cibo come occasione di sviluppo” con curiosi approfondimenti sulle città italiane “tra kebab e bietole cinesi”, all’intercultura alimentare e alle “buone maniere religiose di stare a tavola”.