Rimpatri di massa: spavento e preoccupazione tra Grecia e Turchia

Dal 4 aprile, in base all'accordo Ue-Turchia, sono iniziati nell'isola di Lesbo, in Grecia, le prime espulsioni dei profughi arrivati dopo il 20 marzo. Un accordo che ha ricevuto critiche da tutte le organizzazioni umanitarie per le scarse garanzie di rispetto dei diritti umani. Clima di incertezza, spavento e rischio di gravi tensioni sono segnalate dalle Caritas che operano in loco. Intanto, arriva l'annuncio a sorpresa di una possibile visita del Papa a Lesbo, la settimana prossima.

C’è grande spavento e tensione tra i profughi ora in Grecia, che rischiano di essere rispediti come merce di scambio verso la Turchia, sulla base dell’accordo firmato con l’Unione europea, che da lunedì ha reso operativi i rimpatri di massa, con le prime 202 persone trasportate con le navi dall’isola di Lesbo al porto turco di Dikili. E c’è grande incertezza e preoccupazione tra gli operatori umanitari che lavorano nei due Paesi, perché temono l’ulteriore deteriorarsi di una situazione già allo stremo. Entro la fine della settimana, ma la data viene continuamente rinviata, le forze dell’ordine effettueranno anche lo sgombero forzato del campo di Idomeni, al confine con la Macedonia, dove stazionano oltre 10mila profughi. Si rischiano resistenze e scontri: chi è arrivato fin là fuggendo dalla disperazione e rischiando la vita, farà il possibile per non essere rispedito indietro: 9 profughi su 10 affermano infatti che “l’accoglienza in Grecia è un paradiso rispetto a quella ricevuta in Turchia”. L’accordo Ue-Turchia, patteggiato secondo il meccanismo dell’1 a 1 (per ogni profugo rimpatriato un altro viene ricollocato in Europa), dovrebbe coinvolgere circa 73mila persone. L’Ue darà in cambio ad Ankara 6 miliardi di aiuti. La scelta dei rimpatri, secondo Caritas Hellas e tutte le ong greche che lavorano con i migranti, è “stata la soluzione peggiore, assurda e irregolare perché non rispetta i diritti umani e la dignità delle persone”. In questo scenario si colloca l’annuncio a sorpresa di una possibile visita di Papa Francesco all’isola di Lesbo, dove approdano le imbarcazioni dei migranti, la settimana prossima. La data potrebbe essere il 14 o il 15 aprile. La Chiesa ortodossa di Grecia è pronta ad accogliere il Papa e la Santa Sede non smentisce i contatti in corso.

La presenza del Papa a Lesbo “sarebbe un grande gesto e un esempio molto forte per tutti, anche se temo che i politici europei non lo ascolteranno granché”, ammette padre Antonio Voutsinos, presidente di Caritas Hellas (Grecia).  Padre Voutsinos è fortemente preoccupato per la situazione, che “si sta complicando sempre di più”. Sul territorio greco si trovano infatti circa 50mila profughi, sparsi tra le isole meridionali, Atene, Pireo, Salonicco, Idomeni e altri insediamenti informali.  “I profughi non vogliono tornare –  spiega  – e stanno cercando di guadagnare tempo facendo richiesta di asilo politico, anche se i tempi sono lunghissimi. Prima erano solo di passaggio ora sono costretti a restare qui. Di conseguenza aumenteranno i bisogni e le difficoltà nell’assistenza”. Caritas Hellas, in collaborazione con altre Caritas europee, ha attivi diversi programmi di aiuti umanitari e assiste migliaia di profughi. Nell’isola di Lesbo ha preso in affitto un hotel che ospita 25o persone (soprattutto le famiglie più vulnerabili), altre due strutture con 300 persone e due centri diurni sono ad Atene, con aiuti umanitari distribuiri all’esterno o all’interno degli altri campi sparsi per il Paese.

Paura di nuovi scontri a Idomeni. Anche nelle strutture Caritas potrebbero quindi, da un giorno all’altro, bussare alle porte per chiedere il rimpatrio dei profughi. “Cerchiamo di rassicurarli, abbiamo assistenti sociali e psicologi, ma sono tutti molto spaventati – racconta da Atene Maristella Tsamatropoulos, responsabile comunicazione di Caritas Hellas  -. Nessuno vuole tornare in Turchia. Anche noi viviamo in un clima di incognita terribile, tutti in attesa, senza sapere cosa succederà domani”. La paura maggiore è il rischio di scontri con le forze dell’ordine durante il previsto sgombero forzato di Idomeni, come già avvenuto il 4 dicembre scorso. “La polizia ci assicura che useranno le buone maniere, stanno cercando di persuaderli a spostarsi in campi più organizzati – spiega -. Ma si sa che quando entrano in gioco le armi la situazione può diventare ingestibile. Speriamo non succeda niente ma la situazione si sta deteriorando e la tensione è già alta: ogni giorno ci sono risse per il cibo o per altri problemi”.

In Turchia incertezza e attesa. Sull’altra sponda del Mediterraneo le ong turche vivono la stessa fase di incertezza e attesa, soprattutto “sui possibili esiti dei soldi promessi  – spiega da Istanbul Daniele Albanese, di Caritas Biella -. La società civile turca vorrebbero indirizzare questi fondi verso un utilizzo positivo, cercando di promuovere il volontariato”. Il dato curioso è che il volontariato non è una prassi consueta tra i turchi, eppure “solo a Istanbul ci sono un migliaio di profughi siriani molto qualificati (medici, infermieri, insegnanti) che vorrebbero aiutare i connazionali”. I numeri previsti per i rimpatri – circa 73mila  – sono comunque talmente bassi rispetto ai 2,7 milioni di profughi (in maggioranza siriani) presenti in Turchia, che per le ong impegnate nell’emergenza, secondo Albanese, “gli effetti dell’accordo potrebbero essere quasi irrilevanti”. “L’unico obiettivo – commenta – sembra essere quello di disincentivare ancora le partenze dalle coste turche. Ma i flussi si stanno già spostando più a nord, verso la Bulgaria”.

In aumento sbarchi dalla rotta libica. Sul fronte italiano è infatti già in corso un ritorno dei flussi sulla rotta libica. “Da gennaio ad oggi è già stato registrato un aumento del 40% degli arrivi via mare rispetto allo scorso anno”, conferma Oliviero Forti, responsabile dell’area immigrazione di Caritas italiana -. Con i rimpatri sta avvenendo nei fatti quello che non volevamo. Sono i primi effetti di una Europa che vuole solo allontanare i profughi dai propri confini”, con “la gravità di far tornare i migranti in un Paese che non dà nessun tipo di garanzia di rispetto dei diritti umani, a parte le dichiarazioni”. “La questione di fondo – conclude – è politica: non si è avuto il coraggio di dare una risposta coordinata ad un fenomeno che dovrebbe riguardare tutta l’Unione europea. Le paure di alcuni hanno prevalso sulla buona volontà di altri”.