Cultura
Riscoprire la speranza mediante l’accettazione del dolore umano
Lo scopo dell’opera è quello di far riflettere sulle vera bellezza morale che si può pregustare combattendo il peccato
Il prossimo giubileo vuole essere un’occasione unica per recuperare il vero senso della speranza cristiana, che è cammino verso Dio, celebrazione del suo amore in croce, fiamma che arde, riscalda lo spirito e illumina le tenebre del peccato e del dolore, mostrando la strada verso un futuro migliore. Un viaggio nella cultura religiosa europea per comprendere quanto sia importante “tenere accesa la fiaccola della speranza” – riprendendo le parole di Papa Francesco nella lettera al Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione – è quanto proposto nel libro “Trittico delle cose ultime. Grünewald, Holbein, Raffaello” (Pazzini editore), scritto dall’architetto italiano Giorgio Gualdrini, appassionato di restauro dei centri storici nonché studioso di filosofia e di teologia. Nelle pagine di questo contributo, intrise di potenza drammatica ma anche di gioia cristiana, ricche di dottrina, cultura e arte, l’autore concentra la sua attenzione su tre dei grandi capolavori artistici dipinti nel periodo rinascimentale, in particolare tra il 1512 e il 1522: la “Crocifissione di Isenheim” di Matthias Grünewald, il “Cristo nella tomba” di Holbein e la “Madonna Sistina” di Raffaello. Sono stati realizzati in un’epoca di profondo rinnovamento per la Chiesa cattolica, chiamata a fare i conti con i pericoli rappresentati dalla riforma protestante e dal dilagare delle eresie. Questo è il momento in cui il fedele prende coscienza del peso che il peccato ha nella sua vita e comprende il sacrificio di Gesù, morto in croce per salvare l’umanità. Il file rouge posto da Gualdrini alla base della sua argomentazione è la descrizione del dolore in tutta la sua tragicità, e il bisogno di accettarlo con fede e speranza, rinascendo a vita nuova. Grünewald (1470/80-1528) è tra i principali autori cattolici del rinascimento tedesco, creatore di pitture cariche di pathos e di scene angosciose, dal forte contenuto emotivo e dal gusto gotico. La sua “Crocifissione” (1512-16) per il Polittico di Isenheim è tra le rappresentazioni più crude e cupe dell’arte occidentale, destinata a confortare gli ammalati gravi dell’ospedale di Isenheim prossimi alla morte.
Conservato nel museo di Unterlinden a Colmar, il pannello mostra il crocifisso appeso sul tronco nodoso nel cielo buio, con le mani irrigidite dallo spasimo, il corpo ricoperto di piaghe, la bocca schiusa nell’ultimo urlo e con la corona di spine sul capo. Intorno ci sono la Vergine Maria svenuta e sorretta da un Giovanni travagliato, la Maddalena che grida a terra e il Battista con l’agnello sgozzato che addita Gesù. Lo scopo dell’artista è quello di esprimere, in modo terrificante, il percorso della vita che non esclude tribolazione e morte. La visione dell’opera aiuta gli infermi dell’ospedale a ritrovare loro stessi, e a capire che il loro tormento si aggiunge alle tante afflizioni patite da Cristo. Tutte le pene sofferte da lui e da loro hanno un senso, perché sopportarle conduce alla Resurrezione, che è gioia e luce. Tenendo aperte le ante mobili di quest’immensa tavola è possibile osservare, insieme alle figure di alcuni santi, la dolce scena di Maria che culla Gesù e il Cristo radioso, che ascende al cielo e che prende il posto dell’orrendo uomo morto. La scelta di un soggetto truce rispecchia quella che doveva essere l’ansia di Lutero che, volendo riformare la Chiesa del tempo, si immedesima nel dolore del crocifisso. Il maestro non vuole scioccare ma consolare, facendo capire che qualsiasi amarezza, se accolta nella vita, può condurre a nuovi orizzonti di pace. Il pittore e incisore svizzero Hans Holbein il Giovane (1497/98-1543) si ispira al lavoro di Grünewald per dipingere il “Cristo nella tomba” (1521), conservato al Kunstmuseum di Basilea.
Esso ritrae Gesù prima ancora della resurrezione, con la faccia, le mani e i piedi in putrefazione, con il corpo in più punti emaciato, con gli occhi e la bocca semiaperti, con i capelli scompigliati e con il petto segnato dalla lesione provocata dalla lancia. Il cadavere, ispirato al corpo di un ebreo affogato nel Reno, è raffigurato a grandezza naturale e dà l’idea che la speranza sia ormai svanita, a causa della morte. Holbein è affascinato dal macabro e vuole far riflettere sul senso di realtà, di pietà e di colpa. Dà vita, con le sue pennellate, ad un essere buono, simbolo della bellezza morale e della purezza senza macchia, che si butta nel mondo per cercare di redimerlo. Raffaello (1512-1513), infine, dipinse la “Madonna Sistina” (1513-14), conservata nella Gemäldegalerie di Dresda.
La scena è aperta da un ampio panneggiamento verde in cui la Madonna, con gli occhi leggermente abbassati, tiene in braccio Gesù bambino e si muove verso i fedeli come se fosse sospesa fra le nubi, mentre le pieghe del suo abito sono mosse dal vento. Ai due lati spiccano Papa Sisto II, anziano con i capelli bianchi e la barba ispida, che guarda la donna, e Santa Barbara inginocchiata tra le nuvole, vestita con abiti cinquecenteschi, e rivolta verso un ipotetico pubblico mentre prega la Vergine. Due paffuti angioletti sembrano sospesi nei loro pensieri, stando appoggiati alla cornice del quadro. Vestita in maniera semplice, Maria offre un termine di paragone della bellezza umana, che si trasforma in bellezza spirituale diventando grazia. La Madonna simboleggia l’anima razionale che guarda davanti a sé, intenta a voler conoscere la verità dei fatti, conscia di essere stata chiamata a perpetuare, attraverso il suo dolore, il dolore del mondo. Gesù, l’agnello sacrificale, guarda esterrefatto gli orrori sulla terra. Come scrive anche Schopenhauer nel primo verso della lirica dedicata a questo quadro: “Ella lo porge al mondo: ed egli guarda atterrito”. Gli sguardi dei personaggi fanno fare all’osservatore esperienza diretta del divino, dinnanzi al quale è tenuto a rispondere dei suoi peccati. Può sembrare strano che Gualdrini abbia voluto accostare un’immagine materna ad altre due strazianti e piene di tormento. In realtà sono tre opere che rimandano, come dice il titolo del libro, alle “cose ultime”, che si trovano all’intersezione tra vita e morte, tra tempo ed eterno, tra essere e nulla. Mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e vicepresidente della Cei, autore della prefazione del libro, parla del lavoro di Gualdrini come di un “poema della bellezza sofferente”. Lo scrittore riconduce il tema del dolore, che attraversa la vita dell’uomo, all’attenzione dei contemporanei. Quello che stiamo vivendo è il secolo buio, apparentemente incurante del cristianesimo ma in realtà legato ad esso, contrassegnato da una progressiva chiusura in sé stessi e da un’omologazione alla cultura secolarizzata, che dimentica che da quel corpo straziato del Nazareno, dalle sue ferite, dal suo strazio esterno e interno è nata la millenaria storia religiosa che ha inciso sulla nostra identità. I tre capolavori esprimono un’unica forma di bellezza, volta alla trasmissione delle fede cristiana. È la “Via Pulchritudinis” (la via della bellezza) – com’è definita da Bergoglio – una bellezza non fine a se stessa ma capace di infondere fede e speranza. Perché “la speranza cristiana non è negazione del dolore e della morte, è celebrazione dell’amore di Cristo Risorto che è sempre con noi, anche quando ci sembra lontano” ha recentemente detto Sua Santità ai giovani.