E noi che cosa dobbiamo fare?

«Che cosa dobbiamo fare?» Lc 3,10.12.14

Le letture della terza domenica d’avvento ci chiedono di aprirci alla gioia. Credo che questo sia un richiamo quanto mai opportuno per riscoprire una dimensione spesso assente nella nostra vita personale come nelle nostre celebrazioni liturgiche. Eppure, siamo discepoli di Colui che ha saputo sorridere per la bellezza della natura e dell’animo umano; ha ammirato gli uccelli del cielo e i gigli dei campi; ha goduto l’amicizia di Marta e Maria; ha esultato di gioia per gli ammalati guariti, gli indemoniati liberati e i poveri evangelizzati; ha raccontato la gioia dell’uomo che scopre un tesoro nascosto e della donna che ritrova la sua moneta perduta. All’inizio della sua missione tra noi, ha chiesto non solo la conversione ma anche l’adesione del cuore a una notizia di gioia.

Insieme però, ci invita ad abbracciare la responsabilità, accostando all’annuncio della salvezza la realtà del giudizio. Il binomio salvezza-giudizio scaturisce dalla consapevolezza che la gioia della salvezza è “un già e un non ancora”, perché proclamata in una realtà personale e sociale segnata dal peccato: ingiustizia, corruzione, giochi di potere, violenza e rifiuto dell’altro. Nasce da questa coscienza la domanda ripetuta per tre volte dalla gente comune, le folle, e dai pubblicani e i soldati, simbolo di corruzione e sopruso: «Che cosa dobbiamo fare?»

Giovanni non risponde indicando pratiche ascetiche o gesti di pietà, ma chiede a tutti di vivere con responsabilità il proprio quotidiano. Agli esattori delle tasse chiede di non rubare, di non pervertire il loro ruolo in sorgente di tangenti e guadagni illeciti; ai soldati ricorda di vivere il loro mandato nella difesa dei deboli e di non trasformarlo in uno strumento di paura, estorsione e violenza. In sintesi, chiede di vivere ogni professione come un servizio reso alla famiglia umana.

Invita, infine, le folle ad aprirsi all’attenzione agli ultimi, ai poveri, condividendo la propria vita, vesti e cibo, con loro. Donare il proprio vestito significa infatti riconoscersi nell’altro, e sedere alla stessa mensa è divenire fratelli, compagni di strada. In sintesi, Giovanni chiede a tutti la conversione del cuore perché è lì che inizia il cambiamento di noi stessi e del mondo. È la via dell’amore, un amore che ferisce perché interpella le nostre coscienze ed esige scelte quotidiane e radicali.

Giovanni per primo si pone in questa strada: non utilizza la propria popolarità per dichiararsi il Messia; si presenta come schiavo chiamato a preparare la via e a servire il Signore; è colui che offre un battesimo d’acqua nell’attesa di un battesimo nello Spirito che circonciderà i cuori. Partendo dalle aspettative del proprio popolo, annuncia un Messia giudice, venuto a separare la pula dal grano con la forza del fuoco. Giovanni stesso sarà scandalizzato da chi annuncia (Lc 7,19), quando Colui che dovrebbe ripulire l’aia e vagliando il grano, si siederà a mensa in compagnia di peccatori e prostitute per condividere il pane con loro, ed invitarli al banchetto del Regno.

Come ogni credente, anche Giovanni si scontrerà con il mistero di un Dio imprevedibile, sempre nuovo, impossibile da rinchiudere nelle nostre categorie. Ma forse proprio in questo dubitare risiede il “vangelo” proclamato dal Battista perché Dio non è il garante delle aspettative umane, ma è un incontro che cambia la vita.

Vogliamo porci in cammino? Chiediamoci insieme: «Che cosa dobbiamo fare?»