«…la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6,45)

VIII Domenica del Tempo Ordinario

Le letture di oggi pongono al centro della nostra riflessione una realtà essenziale: la parola. Come infatti ammonisce Pr 18,21: «Morte e vita sono in potere della lingua». La menzogna, la calunnia, la parola adulatrice, la parola che plagia, che distorce la realtà, che manipola le persone, che mente mischiando frammenti di verità a dosi di falsità, sono esempi di parola che uccide. Anche nella vita spirituale c’è il rischio di ridurre la fede ad un discorso edificante, quasi che, pronunciate le parole giuste su Dio, si fosse esentati dal metterle in pratica. La parola che consola, incoraggia, consiglia, perdona, denuncia l’ingiustizia e gode della verità è una parola che dona vita.

La Scrittura conosce bene la distinzione tra la parola vuota che non esce dal cuore, e la parola che si fa carne, si coinvolge, rischia, non si nasconde e non accetta compromessi. Purtroppo, travolti dalla valanga di parole che soffocano la vita, dalla pubblicità assillante, dai ‘like’ anonimi che non impegnano e dalla violenza verbale protetta dall’anonimato… abbiamo imparato a non attribuire valore alcuno alla parola. Parliamo senza dialogare perché abbiamo spezzato l’unità esistente tra la nostra parola e il nostro cuore.

Come ridonare, dunque, valore alla parola e come discernere la verità nell’oceano di parole che ci circondano? Il vangelo di oggi ci indica due criteri. Il primo è racchiuso in una serie di detti costruiti attorno al verbo vedere (vv. 39-42): è necessario purificare lo sguardo e puntarlo su se stessi e la propria storia, una storia di peccato segnata dal dono ripetuto della misericordia del Padre. L’esperienza di essere avvolti da un amore incondizionato è l’unico punto di vista con cui “guardare” all’altro. La contrapposizione paradossale della trave e della pagliuzza svela la nostra ipocrisia: siamo accecati da un peso insostenibile e abbiamo la pretesa di condannare il fratello per un nonnulla! Il secondo criterio è svelato dalla metafora dell’albero: la parola è vera se genera «opere buone», se immerge nelle ferite della storia, se coinvolge in progetti di giustizia e di pace, se ci pone dalla parte dei crocifissi di ogni tempo.

Perché questo accada, Luca ci guida a scavare alla radice delle azioni umane, il cuore (v. 45). Nell’esperienza biblica rappresenta la sede della volontà e dell’intelligenza, della ragione e della capacità decisionale. La parola rivela il cuore dell’uomo, mostra ciò che in lui abita: quando parliamo, parliamo a partire da noi stessi e parliamo di noi perché la parola è intimamente legata al nostro corpo e alla nostra anima, alla nostra vita e alle nostre ferite, alla nostra capacità o incapacità di amare. La parola è una consegna di noi stessi all’altro e quando scaturisce dal cuore ci mette a nudo, rivela qualcosa della nostra interiorità. La parola è, inoltre, responsabilità perchè una volta pronunciata ci impegna, appartiene a chi l’ha ascoltata.

La parola “buona” che scaturisce dall’abbondanza del cuore è allora la parola umile, la parola che ha il coraggio della verità e che non nasconde la realtà. Ciò richiede l’uscita dalla cecità, la presa di coscienza della “trave” che accieca il proprio sguardo, per vedere ogni altro, riconoscerlo nella sua dignità di immagine e somiglianza di Dio, per trasformare insieme la nostra società nel sogno di Dio.

Chiediamoci: mi regalo spazi di silenzio per conoscere il mio cuore? Qual è La sorgente delle mie parole? Quali “frutti” producono?