San Giovanni Bosco. Il sacerdote dei giovani
La vita di un diplomatico speciale al servizio di Dio, in missione per l’uomo
1. Il sacerdote dei giovani
Giovanni Melchiorre Bosco è nato il 16 agosto 1815, da una famiglia di origine contadina. La biografia “ufficiale” indica come data di nascita il giorno precedente, festa religiosa dell’Assunta, particolarmente significativa per prefigurare il percorso di santità che condurrà Don Bosco alla successiva canonizzazione. Tuttavia, i registri parrocchiali di Castelnuovo d’Asti (dal 1930 Castelnuovo Don Bosco) indicano il 16 di agosto, festa di San Rocco, comunque importante. Il duro lavoro nelle cascine non gli impedì di proseguire gli studi ed entrare in seminario, per essere poi ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Torino Luigi Fransoni, il 5 giugno 1841. La frequentazione della popolazione giovanile della città e, soprattutto, l’assistenza spirituale ai giovani delle carceri cittadine lo spinsero a cercare di provvedere concretamente ai bisogni educativi e spirituali delle masse giovanili popolari: il suo primo obiettivo fu la creazione di oratori dapprima itineranti, poi stabili, in cui i ragazzi potessero studiare un mestiere e avvicinarsi alla pratica dei principi cristiani. Numerosi furono i sostegni che, dopo le iniziali diffidenze, egli riuscì ad ottenere sin nei piani più alti del governo del Regno di Sardegna e della gerarchia ecclesiastica.
2. Mediatore e diplomatico
Il santo fondatore delle Congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice è più che noto per la sua attività pastorale e per lo spessore morale e religioso, tuttavia non faremmo pienamente onore a questa straordinaria figura del XIX secolo se non considerassimo un aspetto meno conosciuto della sua azione, ovvero quello di mediatore e diplomatico in via non ufficiale che segnò gli anni travagliati dei rapporti tra Stato e Chiesa all’ombra della nascita del Regno d’Italia.
Nel febbraio-aprile del 1858 lo troviamo a Roma. Direttore delle «Letture cattoliche» e di fiorenti oratori giovanili, oltre ad essere preceduto dalla fama di degno e severo religioso, Don Bosco ottenne subito alcune udienze pontificie, durante le quali ebbe modo di incontrare il favore di Pio IX per tutti i suoi progetti, tra i quali, l’anno successivo, realizzerà quello di dare inizio ufficiale alla Società di S. Francesco di Sales, insieme ad altri diciotto ecclesiastici e laici, il 18 dicembre del 1859. A questo periodo risale anche l’inizio della sua attività diplomatica non ufficiale in seno alla politica ecclesiastica del Regno di Sardegna e, successivamente, del Regno d’Italia.
Il suo intervento in alcune questioni politiche si realizza all’ombra delle numerose attività pastorali da lui condotte con risolutezza e carità tra le masse giovanili e popolari che gli guadagnarono, dopo tante difficoltà e diffidenze, la stima e la fiducia di molte alte personalità cattoliche e laiche, nel pieno rispetto delle diverse posizioni, e lo posero in una condizione privilegiata per intrecciare rapporti con alcuni dei protagonisti della scena politica dell’epoca come il Re Vittorio Emanuele, Camillo Benso conte di Cavour, Urbano Rattazzi, Alfonso La Marmora, Giovanni Lanza, Marco Minghetti, Pio IX, il cardinal Segretario di Stato della Santa Sede Antonelli, ecc. Del resto, numerose le attestazioni di stima nei suoi confronti da parte di uomini politici e illustri contemporanei, tra le quali si ricordano le seguenti:
«Oh! Si usi un po’ di riguardo a questo povero D. Bosco […] Ho sempre voluto bene io a D. Bosco e gliene voglio ancora» (Conte Camillo Cavour[1]
«Ma lasciatelo un po’ stare tranquillo Don Bosco. È un prete che fa del bene» (Generale Giuseppe Garibaldi[2]
«Quando vuole parlarmi, non occorre che domandi udienza; venga pure e si faccia solamente annunziare; voglio che ci trattiamo da amici» (Agostino Depretis[3]
«Il Ministro, appena udì il mio nome, venne sulla porta del Gabinetto, dicendo, dicendo: “Venga, o caro signor Don Bosco, venga pure avanti; per lei non c’è anticamera» (Francesco Crispi[4]).
E ancora, da alcune lettere del guardasigilli Paolo Onorato Vigliani:
«A Lei che è ottimo Sacerdote e onorato cittadino […] Se tutto il clero fosse animato dai prudenti e moderati di lei sentimenti, in tutto degni di un virtuoso Sacerdote e di un buon suddito […] Il cielo continui a benedire e prosperare le molte di Lei opere di carità e La conservi al bene della Chiesa ed anche dello Stato»[5].
Grazie allo spessore della sua figura ed alle sue capacità di mediatore, negli anni Sessanta del XIX egli si offrì come episodico punto di raccordo tra le due parti in conflitto, ovvero il neonato Stato italiano e il papato.
Poco nota è, infatti, la sua attività di mediazione ufficiosa e del tutto confidenziale svolta fra i vertici della curia romana e dei governi piemontese e poi italiano su varie questioni, tra le quali spiccano quella delle nomine di vescovi nelle sedi vacanti e della correlata concessione della temporalità (ovvero della presa di possesso dei beni della mensa episcopale) agli stessi nella c.d. questione dell’exequatur.
3. Il caso Fransoni e le sedi vacanti
Il primo contatto con Camillo e il marchese Gustavo Cavour avvenne in occasione del caso Fransoni. Osteggiato dai liberali già l’indomani della promulgazione delle libertà costituzionali, nel 1848, l’arcivescovo di Torino Luigi Fransoni era stato allontanato dalla sua città. Poco dopo la promulgazione delle leggi Siccardi che avevano segnato la rottura dei rapporti tra il Regno di Sardegna e lo Stato Pontificio, il suo rientro in sede ne aveva portato all’arresto ed alla condanna (Consistente in una multa e nella condanna ad un mese di carcere) per aver diramato una circolare al clero ritenuta provocatoria in relazione alla legge sull’abolizione del foro ecclesiastico. La morte del ministro Pietro De Rossi e il rifiuto del conforto religioso, a causa della scomunica comminata dal papa a coloro che avevano partecipato all’approvazione delle leggi Siccardi, ne aveva provocato un ulteriore arresto.
Parallelamente, altri vescovi sul territorio del Regno di Sardegna erano stati allontanati dalle loro sedi pastorali per il loro atteggiamento nei confronti delle leggi statali, viceversa ligio alle direttive pontificie.
Gustavo Cavour, fratello di Camillo, cercò di coinvolgere Don Bosco nelle trattative tra Torino e Roma, allora giunte a un punto di stallo dopo vari tentativi di mediazione di altri prelati. In quel periodo Don Bosco si trovava a Roma e lì Gustavo gli inviò una missiva con la preghiera di intercedere presso le autorità pontificie sulla questione delle sedi vescovili e, soprattutto, affinché elevassero alla porpora cardinalizia monsignor Fransoni e nominassero un suo coadiutore con diritto di successione tra i nomi suggeriti dallo stesso Camillo Cavour: si sarebbe trattato di un atto che avrebbe potuto riavviare un processo di riconciliazione tra le parti, per poter tornare a dialogare. Don Bosco presentò le richieste in udienza con il papa e con il segretario di Stato card. Antonelli, da cui ricevette istruzioni per intavolare una trattativa. Tuttavia, se per le questioni relative ai vescovi di Asti, Cagliari e Torino si erano aperte evidenti possibilità di accordo e, nonostante sia Roma che Torino accettassero la rinuncia di mons. Fransoni, ben diversa era la sostanza della natura della rinuncia stessa che si esigeva da parte di Cavour mentre l’Antonelli la poneva semplicemente come eventuale, previo il ritorno in sede del monsignore. Al centro della questione non vi erano solamente gli scandali generati intorno alla figura di mons. Fransoni, ma anche l’accettazione o il rifiuto della politica eversiva inaugurata dal Regno di Sardegna e osteggiata in tutti i modi dalla Santa Sede. Non vi poteva essere alcuna conciliazione tra le parti su questo punto.
Di fatto, anche il negoziato portato avanti da Don Bosco fallì come i precedenti e, tuttavia, alcuni punti della trattativa erano stati portati avanti e alcune situazioni erano state risolte, benché minori, aprendo comunque un canale di dialogo che più tardi sarebbe tornato ad essere utilizzato, senza contare la stima e la fiducia che il prelato si era guadagnato, in questa occasione, su entrambi i fronti.
Le biografie di Don Bosco attestano come i rapporti tra Don Bosco e Cavour si fossero interrotti con l’approvazione della legge Rattazzi del 1855, con la quale venivano soppresse le corporazioni religiose, se si eccettua un incontro occasionale nel luglio del 1860 nell’ufficio del ministro dell’interno Luigi Carlo Farini dove il prelato si era recato per chiedere ragione delle perquisizioni subite nel maggio e nel giugno precedenti. Ricerche più approfondite condotte da Francesco Motto nell’Archivio Segreto Vaticano hanno portato alla luce un documento inviato da Don Bosco al pontefice databile alla prima metà di gennaio del 1859, in cui si accenna ad un incontro con il Cavour sulla questione delle sedi vescovili vacanti e, contemporaneamente, si fa cenno ai maneggi politico-militari che si andavano preparando per promuovere l’insurrezione nello Stato Pontificio, alle soglie di una guerra franco-piemontese con l’Austria:
«Le cose di questa nostra diocesi sono ognor più incagliate: il male cresce. Cavour manifesta buona volontà, se fosse sincera, ma è circondato da gente trista che lo trascina chi sa dove. Stamattina soltanto mi disse che vuole presentare altri candidati per le diocesi vacanti […] Approfitto […] per dire a V. Santità una cosa che mi preme. Da alcuni scritti che potei avere fra le mani ho ripetutamente saputo che alcuni malevoli vorrebbero far centro a Civitavecchia, ad Ancona e Roma. Lo scopo sarebbe quello di promuovere idee rivoluzionarie per porle in pratica sul finire del mese di marzo. Non ho potuto avere il nome di tali persone: le lettere sono semplicemente segnate F.A.»[6].
Se la prima parte della missiva ci permette di verificare l’esistenza di un canale aperto per le trattative, benché in permanenza di una sorta di status quo tra le parti, l’accenno successivo ci da ragione delle perquisizioni di cui don Bosco era stato fatto oggetto a causa dei rapporti che intratteneva in segreto con i cardinali in esilio come il Fransoni, o con la Santa Sede in genere, su questioni più che riservate (sebbene l’imminenza dell’attacco piemontese fosse quasi di dominio pubblico), dandoci un’idea delle relazioni intrattenute da don Bosco in quegli anni.
4. L’attività pastorale e la questione romana
Nel 1864 il religioso ottenne da Roma il decretum laudis per la Pia Società di S. Francesco di Sales e l’avvio delle pratiche per il corrispettivo esame delle regole o costituzioni. Suffragato dalle commendatizie di molti vescovi subalpini, ebbe nel 1869 l’approvazione pontificia definitiva della Società salesiana. Del resto, l’instancabile attività pastorale ed educativa si affiancava alla capacità di tessere relazioni per sostenerla. Di fatto, lo troviamo protagonista delle trattative per le sedi vescovili, anche se sempre in secondo piano, con un’attività continuativa concretizzatasi soprattutto in tre momenti.
Dopo la proclamazione del regno d’Italia il 17 marzo del 1861 e la morte del Cavour il 6 giugno successivo, la questione romana era divenuta sempre più pressante e i suoi successori non erano riusciti a far valere in Francia e presso la Santa Sede l’orientamento cavouriano della «libera Chiesa in libero Stato». Intanto proseguiva la politica ecclesiastica di spoliazione del patrimonio pontificio e delle libertà politiche del clero, provocando continui provvedimenti vessatori contro i prelati intransigenti e l’allontanamento di sempre più vescovi dalle proprie sedi.
Il 4 aprile del 1865, «L’Unità cattolica» enumerava allo stato coevo, 13 vescovi processati e ritenuti innocenti, 5 vescovi allontanati dalle proprie sedi e portati a Torino, 16 vescovi “morti di dolore”, ben 43 vescovi in esilio e 16 vescovi eletti che non avevano potuto prendere possesso delle proprie sedi[7].
E proprio in quello stesso anno, don Bosco indirizzava una lettera a Pio IX per informarlo della disponibilità di Vittorio Emanuele II a trattare, cui fece seguito una lettera dello stesso papa al Re, il 10 marzo 1865 in cui si diede inizio alla missione Vegezzi.
Gli scambi epistolari, sia in forma diretta che indiretta, che precedettero la lettera di Pio IX al Re sono tali e di tal natura da far propendere per un suo diretto coinvolgimento nella questione della soluzione delle sedi vescovili, in quanto lo stesso don Bosco si faceva pure latore delle istanze dei vescovi esiliati: nel solo Piemonte si contavano nove vescovadi vacanti, otto sulle undici sedi della Sardegna, mentre quella cagliaritana era priva dell’arcivescovo da ben quattordici anni. Si rileva che nonostante lo scambio epistolare con Pio IX debba essere stato ben copioso, stranamente, di esso ci restano solo indizi e nessun documento. Numerose sono le lettere intercorse, e viceversa rimasteci, tra don Bosco e don Manacorda in cui si evince che quest’ultimo, uomo vicino al pontefice, si faceva latore non solo delle missive di don Bosco ma anche delle sue suppliche richieste per i propri giovani o per diverse cause connesse.
Di fatto, don Bosco si trovava in una condizione ideale per offrirsi come tramite non ufficiale, proprio in virtù delle relazioni che intratteneva con gli uomini politici e di governo per la sua attività caritatevole ed educativa. La missione affidatagli esulava però dai consueti canali ufficiali e della diplomazia pontificia, richiedendo la massima segretezza e da svolgersi a titolo del tutto personale, anche grazie alla preesistenza di rapporti epistolari (e incontri personali) che don Bosco intratteneva con il presidente del Consiglio La Marmora, con il ministro dell’interno Lanza e con altre personalità del mondo politico dell’epoca. Rapporti di fatto, collegati alle richieste di sovvenzioni pecuniarie per l’Oratorio di Valdocco, per il ricovero di giovani raccomandati da questo o da quel ministero, senza contare alle problematiche sollevate dalla recente legge sull’insegnamento nelle scuole che lo aveva costretto più di una volta a presentarsi al ministero competente.
D’altro canto, l’ufficiosità del suo intervento in margine alla missione, pure essa segreta, condotta da Saverio Vegezzi e Giovanni Maurizio impedisce agli storici di ricostruire documentariamente i fatti; comunque degno di nota è un telegramma con il quale, in margine al dibattito sulle proposte di cui il Vegezzi era latore, don Bosco veniva chiamato a colloquio direttamente con Lanza:
«Ministero dell’Interno. Torino, 17 marzo 1865 – Il sottoscritto d’ordine del Ministro, avrebbe d’uopo di conferire colla S.V. Rev. Ed Onorevolissima. Se così le piace, potrebbe venire da me in ora d’ufficio a suo piacimento. Di V.S. dev. Servo – Veglio»[8].
L’unico risultato emerso dalla missione fu una condiscendenza di massima al ritorno dei vescovi nelle proprie sedi, a condizioni che il papa avesse ritenuto accettabili, cui seguì l’interruzione del negoziato: un accordo di massima, dunque, ma nulla di concreto.
Da più parti ci si adoperò per il ripristino del negoziato, grazie all’intervento di singoli esponenti di entrambe le parti e delle pressioni internazionali (soprattutto francesi).
5. Un operato ufficioso
Con la dichiarazione di guerra all’Austria del 20 giugno 1866 la situazione precipitò ed in questo clima vennero varate le cd. leggi di eversione, con la soppressione delle restanti congregazioni religiose e l’esproprio dei loro beni. Ci si riferisce qui a due specifici interventi legislativi, ovvero: alla l. 3036/1866 con la quale si negava il riconoscimento e, dunque, la capacità patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni religiose regolari, ai conservatori ai ritiri a carattere ecclesiastico che prevedessero la condivisione di una vita comune; alla l. 3848/1867, con la quale si sopprimevano tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese, pur escludendo le case generalizie.
Per controbilanciare un tale assetto, il capo del governo Ricasoli cercò di adoperarsi affinché l’applicazione delle leggi avvenisse in modo graduale, aprendo la via ad ulteriori progetti, come il ritorno dei vescovi alle loro diocesi e di tanti parroci alle proprie parrocchie, quale segno di apertura, tanto che quando don Bosco fu prima a Firenze nel dicembre del 1866 e poi a Roma dove si trattenne sino al febbraio successivo, si pose nuovamente come intermediario, questa volta tra Michelangelo Tonello e l’avvocato Calegaris, inviati a Roma da Ricasoli, e il cardinale segretario di Stato pontificio Antonelli.
Don Bosco era giunto a Firenze per far visita ad alcuni benefattori delle opere da lui seguite e per inoltrare personalmente varie suppliche ai ministeri ora ivi trasferiti: tra le numerose udienze già fissate, sappiamo che ne venne inserita una all’ultimo momento, quella con il presidente del Consiglio Bettino Ricasoli. Don Bosco accettò l’invito a condizione che le trattative si aprissero per la provvisione dei vescovi e non si facesse cenno alla riduzione dei vescovati. Così fu. Anche in questo caso, una volta avviata la missione ufficiale del Tonello, non abbiamo documentazione che testimoni la natura e la qualità dell’intervento di don Bosco e, tuttavia, vi sono numerosi indizi, come le udienze ed i colloqui ottenuti su entrambi i fronti durante il suo soggiorno a Roma, che fanno ipotizzare un suo coinvolgimento più concreto nella mediazione tra le parti che diede luogo all’avvio di alcune delle nomine per le sedi vacanti. Ad esempio, sappiamo che il giorno steso del suo arrivo a Roma, l’8 gennaio, don Bosco ha incontrato Tonello che era già stato avvertito da Ricasoli della sua venuta con un telegramma in cui gli si chiedeva di intendersi con il sacerdote. Il giorno seguente venne ricevuto dal cardinale Antonelli. Quando, il giorno successivo, il 10 gennaio, il cardinal Antenelli e Tonello si incontrarono sembrarono raggiungere l’accordo sulla sostanza delle cose, rimandando ad ulteriori incontri la calibratura della forma da tenere.
Infine, nell’agosto 1871 fu il presidente del Consiglio Lanza a convocarlo a Firenze, da cui ripartì per Torino e poi fu nuovamente a Roma, nell’ambito di continui contatti tra le due parti e proponendo nominativi vescovili che potessero trovare il favore unanime. Tra i vari interventi si ricorda quello a favore della nomina di Emiliano Manacorda nella diocesi di Fossano.
Nella spinosa questione dell’exequatur don Bosco venne poi coinvolto dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri del governo italiano, Giovanni Lanza (incarico mantenuto dal 1869 al 1873). Secondo la legge delle Guarentigie (ovvero la legge 13 maggio 1871, n. 214 per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede e per le relazioni della Chiesa con lo Stato), per prendere possesso dei benefici episcopali, i vescovi avrebbero dovuto chiedere formalmente l’exequatur e il placet regio e lo stesso valeva per le provvisioni emanate dalle stesse autorità vescovili come la nomina dei parroci e il loro conseguimento successivo del beneficio parrocchiale. La legge, infatti, così prevedeva, all’art.16:
«Sono aboliti l’exequatur e placet regio ed ogni altra forma di assenso governativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle Autorità ecclesiastiche. Però, fino a quando non sia altrimenti provveduto nella Legge speciale di cui all’articolo 18, rimangono soggetti all’exequatur e placet regio gli atti di esse Autorità che riguardano la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista dei benefizi maggiori e minori, eccetto quelli della città di Roma e delle Sedi suburbicarie».
Di fatto, il problema non risiedeva unicamente nell’ingerenza del potere regio in questioni ecclesiastiche, ma lo stesso richiedere una tale autorizzazione implicava l’indiretto riconoscimento del Regno d’Italia, cosa che la Santa Sede era ben lungi dal concedergli.
Si era così creata una situazione di stallo: se la Santa Sede si rifiutava di consentire che i vescovi compissero degli atti diretti ad ottenere l’exequatur regio, il governo italiano esigeva sia l’esplicita richiesta della concessione delle temporalità, sia la ricognizione delle bolle apostoliche relative alla loro nomina.
Del resto queste vicende si inseriscono nella più ampia questione romana con l’annessione militare di ciò che restava dello Stato Pontificio, ovvero Roma, e la fine del potere temporale dei papi che ad essa risposero (da Pio IX sino a Pio XI) rifiutandosi di riconoscere lo stato di fatto e auto-confinandosi tra le mura del Vaticano come “prigionieri” dello Stato Italiano. Né la legge sostanzialmente unilaterale delle Guarentigie aveva prodotto risultato alcuno.
La situazione si era poi aggravata in seguito alla legge del 19 giugno 1873, con la quale il Lanza estendeva l’esproprio dei beni ecclesiastici, già avviato nel Regno di Sardegna dalle leggi Siccardi e confermato dal Regno d’Italia con le leggi di eversione, al territorio dell’ex Stato Pontificio, compresa Roma.
Alle leggi di eversione è legata un’altra vicenda, parallela a quanto sino ad ora osservato, ovvero quella degli ammonimenti di Don Bosco all’allora Re di Sardegna Vittorio Emanuele II al varo di tali provvedimenti. Sogni profetici di futuri decessi che avrebbero colpito la casa Savoia spinsero il santo a scrivere più lettere al Re in cui si esplicitavano le rivelazioni che, pur non contestualizzate alla legge di espropriazione si inserivano in quello cha appariva come un monito divino al concretizzarsi dello Stato laico a spese di quello ecclesiastico, in un braccio di ferro che troverà una tregua solo nella firma dei Patti Lateranensi del 1929.
Ma la legge Rattazzi rispondeva tanto ad ordini in primo luogo economici quanto all’affermazione della supremazia dello Stato laico e, non da ultimo, alla questione della temporalità papale che da sempre si opponeva all’unità della Penisola.
6. Le nomine vescovili
Intanto, i vescovi nominati nei concistori del 1871 si attennero alle istruzioni vaticane, limitandosi a comunicare alle autorità civili l’avvenuto ingresso in diocesi con la conseguenza di doversi negare l’accesso alle prebende e spesso alle sedi vescovili stesse. Vi furono alcuni vescovi che fecero dei tentativi personali di intermediazione tra l’intransigenza vaticana e quella ministeriale italiana, ponendosi in contatto diretto con il cardinale Antonelli, segretario di Stato della Santa Sede e il ministro De Falco. Ma la Santa Sede pose fine alla questione stigmatizzando il comportamento di quei vescovi che erano riusciti ad ottenere per vie traverse l’exequatur. Tra il 1867 e il 1871 Don Bosco aveva già avuto modo di agire come mediatore tra le parti creando un clima favorevole alla nomina di molti vescovi e, di nuovo, nel settembre del 1871, si trovò ad essere contattato dalla segreteria di stato vaticana per prendere contatti con il Lanza. Lunghe e discontinue trattative si svolsero sotto il suo intervento e numerosi furono i passi avanti, tanti quanto i passi indietro che, da un lato e dall’altro ponevano gli estremisti di entrambi i fronti in posizione favorevole a creare una situazione di completo stallo.
Nonostante i carteggi tra Don Bosco e il Lanza, prima, e quelli con il successivo Primo ministro Marco Minghetti e con il nuovo titolare del ministero di Grazia e giustizia Paolo Onorato Vigliani, poi, in parallelo con quelli intercorsi innanzitutto con il cardinale segretario di Stato Antonelli, ci facciano appena intravedere quelli che dovettero essere contatti febbrili e pazienti tra una sponda e l’altra del Tevere in un arco di tempo di almeno 4 anni, nulla si muoverà, almeno fino alla morte del cardinale (avvenuta nel 1876) e quando motivi soprattutto di carattere economico videro una prima retrocessione su posizioni possibiliste della santa sede, peraltro in netta polemica con quelle che venivano definite ancora nel 1878 come indebite ingerenze. Non dimentichiamo che l’art. 15 della legge delle guarentigie entrava nel merito della stessa nomina dei titolari dei benefici ecclesiastici, così come stabiliva l’ultimo comma, alludendo alla formula del patronato regio. In una lettera al cardinal Nina, pubblicata su «L’Osservatore Romano» del 28 settembre 1878, Leone XIII scriveva:
«La Sede Apostolica, alla quale è riservata la provvista dei Vescovati, non fu solita concedere il diritto di patronato, se non a quei principi che molto bene avessero meritato della Chiesa, sostenendone le ragioni, favorendone l’ampliazione, accrescendone il patrimonio […] quelli che la combattono, impugna none i diritti, addivengono per ciò solo incapaci di esercitarlo»[9].
Nel 1874, al termine di febbrili trattative rimaste senza esito ma comunque aperte, Don Bosco tornò a Torino con il prestigio guadagnatosi in campo politico-diplomatico su entrambi i fronti e con l’approvazione, avvenuta nella primavera, delle costituzioni della Società salesiana. Con il sostegno delle istituzioni pubbliche e private più varie poté aprire oratori, collegi, ospizi, scuole agricole, oltre che in Italia, in varie parti dell’Europa ed in vari paesi dell’America Latina. Negli ultimi anni di vita non cessò di viaggiare a sostegno delle proprie iniziative, sino alla morte, avvenuta a Torino nell’oratorio di Valdocco il 31 gennaio del 1888. Beatificato il 2 giugno 1929, don Bosco fu proclamato santo il 1 aprile del 1934.
La finalità religiosa e pastorale fu, in ogni caso, all’origine di tutti i suoi interventi, anche di quelli più squisitamente politici. Del resto, proprio la sua attività pastorale più volte lo aveva portato a varcare soglie governative e non, alla ricerca di aiuto e sostegno o, più semplicemente, di approvazione per la sua opera e fu proprio questa sua lungimiranza, pur nell’integrità dimostrata delle sue posizioni, a renderlo eligibile a tali incarichi.
Ancora restano da analizzare i suoi successivi interventi, benché di minor rilievo, a vantaggio della pacificazione politica e religiosa italiana, costituendo uno sprone per gli storici ad indagare ulteriormente questa figura così ricca e poliedrica.
DON PINO ESPOSITO
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[1] Conte Camillo Cavour, VI, in Lemoyne G.B. – Amadei A. – Ceria E., Memorie biografiche di don (del beato…, di san…) Giovanni Bosco, I-XX, San Benigno Canavese-Torino 1898-1948, p.678.
[2] Generale Giuseppe Garibaldi, XI, in ivi, p.326.
[3] Agostino Depretis, XIV, in ivi, p. 93.
[4] Francesco Crispi, XVIII, in ivi, pp. 314-315.
[5] Cit. in Motto F., L’azione mediatrice di Don Bosco nella questione delle sedi vescovili in Italia, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, 1988, p. 8.
[6] Cit. in Motto F., L’azione mediatrice di Don Bosco nella questione delle sedi vescovili vacanti in Italia, cit., p. 13.
[7] Dati ripresi e riportati da «La Civiltà Cattolica», VI (1865), II, pp. 371-372.
[8]Cit. in Motto F., L’azione mediatrice di don Bosco nella questione delle sedi vescovili in Italia, cit., p. 24.
[9] Cit. in Belardinelli M., Il conflitto per gli ‘exequatur’ (1871-1878), cit., p.79.