Chiesa
Semeraro: “La misericordia è come la fede, senza le opere è morta”
“Le opere di misericordia. Centro della nostra fede” è il titolo di un volume, di recente pubblicazione, della Libreria Editrice Vaticana. Il testo esamina il significato della misericordia, analizzandolo sotto vari punti di vista e approfondendone il concetto in relazione alle opere, alla famiglia e nei processi storici. A firmare la prefazione è monsignor Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del Consiglio di cardinali
La “misericordia”, il principio architettonico nel magistero di Papa Francesco, è il tema portante di un volume della Libreria Editrice Vaticana, di recente pubblicazione. Il titolo molto significativo: “Le opere di misericordia. Centro della nostra fede”. La prefazione, curata da monsignor Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del Consiglio di cardinali, esamina il significato della misericordia, analizzandolo sotto vari punti di vista e approfondendone il concetto in relazione alle opere, alla famiglia e nei processi storici. Nell’edizione spagnola un’illustrazione di monsignor Carlos Osoro, arcivescovo di Madrid, esplicita in maniera chiara ed emblematica le opere di misericordia corporali.
Sia queste sia quelle spirituali richiamano all’azione, spiega Semeraro: “La misericordia è, infatti, un agire, non un pensare e neppure semplicemente un volere, o un sentimento. La misericordia è come la fede: senza le opere è morta!”
Eccellenza, perché la misericordia è al centro della nostra fede?Semplicemente perché
dire “misericordia” è dire “grazia”!
La misericordia è nient’altro che l’Incarnazione del Verbo, il mistero totale di Cristo. Scrive sant’Agostino nel sermone 207: “Ci poteva essere misericordia maggiore di questa: il Creatore viene creato, il Signore serve, il Redentore è venduto, colui che innalza è umiliato, colui che risuscita è ucciso?”.
E le opere di misericordia?La misericordia è sempre un “agire”: è qualcosa “che si fa”, come conclude la parabola del Samaritano. Ma l’esigenza c’è pure nella prima lettera di Giovanni: “Non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (3,18). La misericordia è sempre storica: non evoca idee, ma esperienze vissute.
Eppure le opere di misericordia – questo “agire” – continuano a non essere il centro della vita pastorale. Se ne parla poco nelle catechesi, nelle predicazioni, negli incontri… Come mai?
Probabilmente perché non si comprende che, come dicevo, la misericordia è un agire, non un pensare e neppure semplicemente un volere, o un sentimento. La misericordia è come la fede: senza le opere è morta!
“La predicazione di Gesù – scrive il Papa nella Misericordiae Vultus – ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli”. Sono, quindi, un criterio di verifica importante…È esattamente quello che hanno capito i santi. Non soltanto capito, ma pure messo in atto. Cito per tutti Francesco d’Assisi, giacché, come ha scritto Romano Guardini, egli è “memoria vivente di Gesù Cristo”. Ebbene, quando nel suo testamento ricorda la sua conversione, i suoi inizi e l’incontro con i lebbrosi, Francesco scrive: “Il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con loro misericordia. Il latino delle Fonti Francescane dice: “Eet feci misericordia cum illis”. Proprio come il Buon Samaritano!
La disaffezione diffusa verso queste opere è forse dovuta alla loro esplicitazione? Vengono percepite come qualcosa di lontano nel tempo? Come rileggerle e riscoprirle nell’oggi?Abbiamo bisogno di ri-educarci alla dignità del corpo e dei suoi “bisogni”. La fame? Il titolo di una recente pubblicazione dice che in Occidente siamo divenuti “sazi da morire”! Pensiamo al tema della “nudità”… C’è, però, che
ogni bisogno corporeo traduce sempre, in qualche modo necessità spirituali.
Possiamo coglierlo da questo brano di Antonia Pozzi, una poetessa milanese drammaticamente morta che ha sentito intensamente il tema del corpo: “Sola mi rannicchio/sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo/che, invece di una fronte indolenzita,/io sto baciando come una demente/la pelle tesa delle mie ginocchia”.
C’è, quindi, un rimando continuo tra opere di misericordia corporali e spirituali.Il dittico settenario di opere di misericordia – corporale e spirituale – c’incoraggia a dislocarci sempre dalle une alle altre. Se ogni disagio corporeo traduce un bisogno spirituale, il primo soccorso spirituale è il più delle volte la vicinanza corporea; di più, “il toccare”. D’altronde il settenario delle opere spirituali è sorto dall’interpretazione in tal senso di quelle materiali. Corpo e spirito stanno insieme. La persona umana è anima-corpo, come direbbe qualche filosofo.
Tutte insieme queste opere c’incoraggiano a inserire la misericordia nel vivo delle nostre relazioni reciproche, delle nostre storie quotidiane.
Ci sono dei passi da compiere per un efficace e corretto esercizio delle opere di misericordia?Troverei validi pedagogicamente i tre passi che fr. Enzo Bianchi ripropone nel suo libro “L’amore scandaloso di Dio”. Si tratta anzitutto di
vedere,
che è ben diverso dal semplice guardare. Vedere è un’efficace terapia per debellare l’invidia, che è un chiudere gli occhi, o peggio togliere dalla vista. Il secondo gesto è il
farsi prossimo
all’altro sino a “toccarlo”, come ho detto prima. San Francesco ha fatto misericordia col lebbroso baciandolo! L’ultimo passo sarebbe il
provare compassione
non solo con il cuore, ma nel fremito delle viscere.
Questi tre passi aprono anche a una dimensione sociale e politica di queste opere…Nel suo messaggio per la scorsa Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa lo ha scritto. Occorre – diceva – riscoprire il potere della misericordia di sanare le relazioni lacerate e di riportare la pace e l’armonia tra le famiglie e nelle comunità. Ma già nella Caritas in veritate Papa Benedetto aveva scritto che non è possibile risolvere tutti i problemi sociali con l’attività economica; la logica mercantile e dello scambio contrattuale è insufficiente. Per questo è importante integrarla con la logica politica. Ma ciò non basta: questa difficoltà deve incoraggiare a quell’altra logica necessaria, che è quella del dono.