Serve anche la tristezza: la nuova educazione alle emozioni aiuta i bambini e gli adolescenti a far pace con la vita e con se stessi

I risultati degli studi americani: quando gli insegnanti aiutano i bambini a gestire i loro sentimenti in classe, i piccoli alunni imparano a risolvere i problemi o i conflitti di una situazione emotiva più rapidamente e, inoltre, sono in grado di impegnarsi in compiti di apprendimento con maggiore efficienza. Negli adolescenti, l’"intelligenza emotiva", o la capacità di riconoscere e gestire le emozioni, è associata spesso a una maggiore capacità di affrontare situazioni di stress e, soprattutto ad una maggiore autostima.

Il tema era stato ampiamente anticipato dal film “Inside Out”. Il contrasto fra i due personaggi, Joy e Sadness, nel finale della pellicola si risolve a favore della seconda. Dato che il suo ruolo nel film non è ben chiaro neppure a se stessa, Sadness (la tristezza) è considerata meno importante delle altre emozioni. Si scoprirà solo alla fine che il suo scopo è segnalare il bisogno della giovane protagonista di ricevere conforto dalle persone che le vogliono bene. Sembrava solo una buona idea per la sceneggiatura di un cartone animato di successo. Ma non è così. Negli Usa, l’argomento è studiato con molta serietà. “Aiutare un bambino a sentirsi di nuovo felice può offrire sollievo immediato sia ai genitori sia ai figli, ma non aiuta un bambino a lungo termine. Insegnare ai bambini a navigare nel loro mondo emotivo è un fattore critico per il successo in tutta la loro vita futura”, ha detto Susan David, autrice del libro “Emotional Agility” uscito da poco nelle librerie statunitensi. La nostra capacità di capire e riconoscere le emozioni, tutte le emozioni, anche quelle negative, secondo la David “guida la nostra azione, influisce sulla nostra carriera, sulle relazioni, sulla felicità e anche sulla salute. Per esempio: lasciamo che la nostra cattiva autostima, le nostre debolezze, la vergogna, la paura o la rabbia ci frenino nella vita? E’ importante essere determinanti e perseveranti verso i nostri obiettivi. Altrettanto importante, però, è avere l’intuizione e il coraggio di riconoscere quando questi obiettivi non sono funzionali alla nostra vita”. Nel gergo dei ricercatori, questa attitudine si chiama “intelligenza emotiva”. Secondo le ricerche citate dalla David nel suo studio, quando gli insegnanti aiutano i bambini a gestire i loro sentimenti in classe, i piccoli alunni imparano a risolvere i problemi o i conflitti di una situazione emotiva più rapidamente e, inoltre, sono in grado di impegnarsi in compiti di apprendimento con maggiore efficienza. Negli adolescenti, l’”intelligenza emotiva”, o la capacità di riconoscere e gestire le emozioni, è associata spesso ad una maggiore capacità di affrontare situazioni di stress e, soprattutto ad una maggiore autostima. Alcuni dati di queste ricerche suggeriscono che la mancanza di “intelligenza emotiva” qualche volta si associa ai sintomi di depressione e di ansia. Le competenze emotive, ha spiegato la David, sono alla base di alcune qualità come la grinta e la resilienza. Ma invece di permettere a un bambino di vivere appieno un’emozione negativa, i genitori spesso reagiscono con quello che la David descrive come un “emotional helicoptering”. “Noi invadiamo lo spazio emotivo del bambino”, ha detto, con la nostra banalità, con alcuni consigli e con le nostre idee di adulti. Le strategie comuni a molti genitori, come ridurre al minimo sia l’emozione sia il problema di fondo o correre in soccorso, non riescono ad aiutare il bambino ad imparare come aiutare se stesso. La David suggerisce quattro passi concreti per aiutare un bambino a passare attraverso un’emozione negativa e per emergerne alla fine pronto ad andare avanti dopo aver sentito, mostrato, etichettato e, infine, guardato andare via quel momento di tristezza che tanto lo aveva spaventato. Per esempio alla David sembra sbagliato dire in continuazione: “non essere triste, non essere arrabbiato, non essere geloso, non essere egoista”. Così facendo disconosciamo la realtà delle sue emozioni. Al contrario, dovremmo “convalidare e vedere il bambino come una persona senziente che ha un suo proprio mondo emotivo”. Nello stesso modo non dovremmo censurare le espressioni delle emozioni negative. “I ragazzi non piangono”, è una frase detta con “con ottime intenzioni, ma stiamo insegnando che le emozioni sono da temere”. Con queste premesse, diventa più facile compiere il terzo passaggio, quello di etichettare le emozioni. La rabbia è diversa dalla pazzia, spiega la David, e i bambini devono imparare a riconoscere ed etichettare le proprie emozioni. L’ultima fase, infine, è quella del “guardare andare via la cattiva emozione”. Tutto passa. Insegnarlo ai bambini quando sono nel pieno di una tempesta emotiva può segnare una differenza importante nel loro futuro.