Strauss il grande. Nella sua forza la Germania di oggi

Per la Baviera fu un padre della patria per averla trasformata, da Land agricolo, in una delle regioni più ricche della Repubblica federale, con industrie di punta e un pil che tutta l’Europa ancora le invidia. Una storia politica, quella della CSU, fortemente intrecciata con le radici cristiane. La Germania si prepara a celebrarne il ricordo.

A cento anni dalla nascita, il 6 settembre, c’è da aspettarsi un ingorgo di visitatori a Rott sull’Inn, dove riposano le spoglie di Franz Josef Strauss, in una tomba-mausoleo mèta di pellegrinaggi da quell’ottobre 1988 in cui, a 73 anni, morì improvvisamente uno dei più noti e discussi politici tedeschi. E se per la Germania era stato un protagonista, per la Baviera fu un padre della patria per averla trasformata, da Land agricolo, in una delle regioni più ricche della Repubblica federale, con industrie di punta e un pil che tutta l’Europa ancora le invidia. Senza peraltro compromettere l’equilibrio ambientale con la maggioranza dei comuni a misura d’uomo, cioè sotto i cinquemila abitanti.Alla sua morte furono proclamati sette giorni di lutto, come alcuni anni prima per lo storico cancelliere Konrad Adenauer. Non è più accaduto. Oggi gli si dedica una mostra a Monaco di Baviera, conii di monete ed emissioni di francobolli; sono previste cerimonie solenni e una commemorazione al Bundestag. Perché Strauss è, fra luci e ombre, un pezzo di storia della Germania del dopoguerra.È vero che su di lui ha pesato la vicenda del settimanale amburghese Der Spiegel: un giorno dell’autunno 1962 furono arrestati sotto l’accusa di alto tradimento il direttore Rudolf Augstein e Conrad Ahlers, autore di un articolo nel quale si rivelavano deficienze nell’apparato difensivo della Nato in occasione delle manovre militari Fall 62 che si stavano svolgendo in Germania. L’ordine di arresto – che sarà giudicato in seguito arbitrario, con l’assoluzione degli imputati – partì dallo stesso Strauss, allora ministro della Difesa: Ahlers fu prelevato addirittura in Spagna, mentre la redazione veniva sottoposta a una perquisizione notturna.Ricordiamo, da corrispondente a Bonn, l’enorme risonanza dell’avvenimento: oltre il terremoto politico ci furono dimostrazioni popolari di protesta, si fecero paragoni con il regime nazista, si denunciò un’inquietante minaccia alla libertà di stampa. Il governo entrò in crisi e Adenauer si separò dal suo ingombrante collaboratore. Ma Strauss, dal 1966 al 1969, fu ancora ministro, delle Finanze questa volta: l’unico che non abbia fatto aumentare il debito pubblico.Il caso Der Spiegel ha condizionato la carriera del politico bavarese, che da candidato cancelliere della Cdu-Csu fu sconfitto nel 1980 dal socialdemocratico Helmut Schmidt e non diventò mai ministro degli esteri, la carica cui fortemente ambiva. Ma è stato per ventisette anni leader dei cristiano-sociali bavaresi, per dieci ministro-presidente a Monaco, deputato del Bundestag dal 1949 sino alla morte; sempre influente, sia sul governo, sia sull’opposizione.Certo è che Strauss ha incarnato l’anima popolare della sua Baviera. Piaccia o non piaccia (ma in genere non piace agli sconfitti), ha fatto vincere con maggioranze assolute per quarant’anni la Csu nelle elezioni regionali e ha contribuito alle coalizioni nazionali con un nutrito manipolo di deputati al Parlamento. Un successo politico di questo genere non va attribuito al caso e non si ottengono per pura abitudine maggioranze (dopo i quaranta anni di Strauss altri trenta con i suoi successori) superiori al 50 per cento. Il consenso popolare, varrà la pena di ricordarlo in un’epoca di “minoranze assolute” come forze di blocco, era il frutto di libere scelte.Perché Strauss non era solo. Nasceva come prodotto di una classe dirigente dalle radici cristiane che non mancava di precedenti: il Partito popolare bavarese di estrazione cattolica, i cui dirigenti erano stati perseguitati e incarcerati dal nazismo; la tenace resistenza morale di esponenti del clero, fra i quali il cardinale di Monaco Michael Faulhaber (“il vescovo ebreo” lo dileggiava la stampa delle SS); il piccolo gruppo di universitari della Rosa Bianca che pagarono con la vita la loro avversione alla dittatura. E, se vogliamo, la rivolta popolare che, nel dopoguerra, impedì l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche.Assistemmo, durante la sua campagna elettorale per la cancelleria, a un comizio nel Wienerwald. Una festa popolare con una perfetta rispondenza fra il candidato e la gente che, fra birra, stinco di maiale e musiche locali, lo riconosceva come uno dei suoi, sino a sorbirsi una concione di due ore. Qualche anno più tardi eravamo al pranzo in onore del presidente Sandro Pertini al Maximilianeum di Monaco, e ascoltammo un forbito discorso da uomo di cultura, con citazioni in latino e qualche frase ben pronunciata in italiano. Aveva un paio di lauree e un dottorato in scienze umanistiche. A cinquant’anni suonati aveva frequentato all’Università un corso di economia politica, prima di diventare ministro delle Finanze.Al momento della scomparsa il “nemico intimo”, Augstein, scrisse: “Non ciò che faceva o diceva, bensì ciò che era costituiva il fascino di lui, certamente il più significativo uomo politico bavarese dal 1918”. E l’autorevole quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, abitualmente poco tenero nei suoi confronti, lo ricordò con un titolo: “Morte di un grande”.