Sui farmaci “orfani” l’Italia può colmare i ritardi

A condizione che vengano snellite le procedure burocratiche che rallentano sia la fase della ricerca sia quella della distribuzione al pubblico. Il problema, peraltro, non sono i costi: stando ai dati del 2013, l'impatto dell'intera classe dei "farmaci orfani" è stato solo del 4,65% sull'intera spesa farmaceutica nazionale.

Quando si è affetti da una malattia non ci si sente “diversamente sofferenti” solo in base al fatto che la propria patologia sia più o meno diffusa nel mondo. L’unica cosa che si desidera è curarsi al meglio e, quindi, che siano disponibili i farmaci utili per la terapia. Se questo può essere banale per moltissime malattie, diventa decisamente più complicato quando si parla di malattie rare e dei farmaci ad esse dedicati: i farmaci orfani.Di questa peculiare categoria di medicinali, riservati a una platea ristretta di destinatari, si scrive poco e l’opinione pubblica ne sa ancora meno. La vulgata corrente li identifica spesso come un qualcosa di estremamente costoso su cui si fa poca ricerca perché alle case farmaceutiche non interessa. Per sfatare questi e altri falsi miti l’Osservatorio Malattie Rare ha organizzato l’8 luglio scorso a Roma la prima edizione dell’ “Orphan drug day” dedicato al tema “Farmaci orfani, ricerca & sviluppo ‘Made in Italy’: il punto su progressi ed ostacoli”. Una giornata che ha visto la presentazione di quattro “buone pratiche” messe in atto da altrettante aziende farmaceutiche (Chiesi Farmaceutici, Celgene, Shire e Dompè) e un’inedita interlocuzione rovesciata in cui sono state le Istituzioni presenti ai massimi livelli (Aifa, Istituto Superiore di Sanità, ministero della Salute, ministero dello Sviluppo Economico, Camera e Senato), a interpellare i privati.“I dati ci dicono che da quando è stata introdotta la designazione ‘farmaci orfani’ (negli Usa già nel 1983 e nel 2000 in Europa) lo ‘status orfano’ è stato concesso a migliaia di molecole e terapie” – ha spiegato la senatrice Laura Bianconi, coordinatrice dell’evento -. “C’è dunque ricerca, che però ha tempi particolarmente lunghi e peculiari difficoltà: su 1163 molecole che hanno ottenuto tale status dall’Ema solo 93 (cioè l’8%) hanno ad oggi avuto l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (Aic). L’altro 92% è ancora per strada, oppure ha tradito le promesse fallendo”.La buona notizia è che, in questo campo, il nostro Paese si esprime a livelli di eccellenza ampiamente riconosciuta all’estero. “L’Italia in questo settore è molto attiva” – ha evidenziato Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di Osservatorio Malattie Rare – “il 20% della sperimentazione clinica nel nostro Paese è effettuata con farmaci orfani. Gli ultimi dati Aifa (2014) parlano di ben 117 trial clinici aperti, l’80% circa dei quali è arrivata alla fase II o alla fase III, le fasi della sperimentazioni più vicine al letto del paziente”. Purtroppo non mancano le difficoltà, spiega Ciancaleoni Bartoli: “se pure su 93 farmaci con l’Aic il 78% è già a disposizione dei pazienti, dopo aver passato tutto il lungo percorso di prezzo e rimborso con Aifa e l’inserimento nei prontuari regionali, c’è un 22% che sta ancora aspettando la fine di questo iter”. In questo senso il problema non sono i costi: stando ai dati del 2013 l’impatto dell’intera classe dei farmaci orfani è stato solo il 4,65% dell’intera spesa farmaceutica.Dal punto di vista delle aziende, per contribuire ad alimentare un comparto che solo in Italia muove investimenti per svariati milioni di euro con ricadute positive sull’occupazione, è necessario snellire la burocrazia e rendere omogeneo il trattamento sul territorio attraverso l’uniformità delle procedure, delle documentazioni e una standardizzazione dei moduli dei Consensi Informati. Per rendere efficace l’azione, è però necessario anche aumentare la consapevolezza e la cultura intorno alle malattie rare e ai farmaci orfani agendo su più livelli, dall’informazione pubblica all’interazione tra pubblico e privato favorendo uno sviluppo concreto di partnership tra accademia, industria, fondazioni di ricerca. Ma, soprattutto coinvolgendo i pazienti, che, ha ricordato Renza Barbon Galluppi, presidente di Uniamo, “vogliono essere parte attiva del sistema e contribuire alla ricerca con l’esperienza della loro quotidianità”. Laddove i dati possono essere di difficile reperimento, è il fattore umano a fare la differenza.