Cultura
Un macigno da rimuovere
Dopo otto secoli continua a pesare come un macigno sulla figura del monaco calabrese, Gioacchino da Fiore, abate e fondatore dell’Ordine dei Florensi (1135ca – 30 marzo 1202) la condanna di un libello ma non si tiene conto che lo stesso Concilio Lateranense IV salva la santità dell'uomo e del suo Ordine.
“Damnamus ergo et reprobamus libellum…”. Queste parole di condanna pronunciate nel corso Concilio Lateranense IV, dopo otto secoli, continuano a pesare come un macigno sulla figura di un monaco calabrese, Gioacchino da Fiore, abate e fondatore dell’Ordine dei Florensi (1135ca – 30 marzo 1202). Profeta della storia, religioso dall’animo inquieto, un cercatore che ha indagato nei meandri della Bibbia sempre incoraggiato dai papi con la Licenza scribendi, (l’autorizzazione a scrivere e commentare la Sacra Scrittura); gli cadde addosso, per intrighi di salotti culturali, un’accusa di eresia leggendaria che ancora aleggia sulla sua figura.
Tredici anni dopo la sua morte, nel 1215, l’odio contro di lui non si era ancora sopito: i suoi nemici, infatti, sostennero, durante una sessione del Concilio, che Gioacchino avesse scritto un “libello” dove criticava le dottrine cristiane del tempo sulla Trinità, parlando, invece di Quaternità. In sintesi, fu accusato di affermare che vi fosse una sorta di “sostanza divina” (quartumaliquid) da cui poi derivavano le tre Persone. I padri conciliari condannarono il testo, ma nonostante ciò il frate non fu inserito nella successiva lista degli eretici, dove invece viene elencato, per esempio, il dottore e teologo parigino Almarico di Bene, “per le sue stravanti credenze”. In verità, la sua unica “colpa” fu quella di aver messo in discussione il pensiero di uno dei più influenti teologi del tempo, Pietro Lombardo, il cui più importante scritto, le “Sentenze”, era considerato un vero e proprio manuale di teologia. Infatti, il concetto di Trinità-Quaternità non si evince in nessun’altra delle sue opere, né si evince in nessun modo l’intenzione di insegnare una dottrina diversa da quella della Chiesa. Ci fu solo questo libro, oggi perduto o forse bruciato insieme agli scritti considerati ereticali, di cui una sintesi resta negli incartamenti dell’antico Concilio.
Il giovane sognatore spirituale
Ancora scarne sono le notizie attorno alla vita di questo personaggio. Sappiamo che Gioacchino nacque a Celico, una piccola località della Sila, in una agiata famiglia di origine ebraica convertita al cattolicesimo che gli permise di studiare e lavorare nelle cancellerie prima di Cosenza poi di Palermo. Fin da ragazzo, raccontano le cronache dell’epoca, si rifugiava nella vigna del padre e, disteso su una grande roccia, rimaneva ogni giorno per molte ore assorto in preghiera e in meditazione. Ebbe modo di viaggiare molto, entrare in contatto con altre culture, giungere fino in Terra Santa e ritornare con una idea di vita spirituale completamente nuova. Al ritorno dai luoghi santi si ritirò prima in alcune caverne dell’Etna, poi fece una esperienza vocazionale di pochi mesi nella foresteria dell’Abbazia della Sambucina di Luzzi, un paese vicino Cosenza. Successivamente decise di entrare nell’ordine dei monaci cistercensi che lo accolsero a Corazzo, dove, dopo pochi anni e dopo essere stato ordinato sacerdote a Catanzaro da Michele, vescovo di Martirano, fu eletto abate nel 1177, per la sua brillante intelligenza e le sue capacità.
Il suo nuovo incarico però gli toglieva tempo alla studio e alla ricerca sulle Scritture, per cui si avvalse a lungo dell’aiuto di alcuni scribi, frate Giovanni e frate Nicola. Visitò molte abbazie che custodivano biblioteche e antichi libri e a Casamari incontrò un frate di nome Luca, che divenne suo scrivano, collaboratore e primo biografo fino alla morte. Da lui sappiamo che Gioacchino: “si nutriva solo di pane e acqua, che assaggiava appena, mentre giorno e notte scriveva o leggeva o pregava, e quotidianamente celebrava la messa”. Dopo la scomparsa del suo amico e maestro, Luca, grazie alla sua statura morale e culturale nonché l’autorevolezza dell’ordine gioachimita cui apparteneva, fu eletto arcivescovo di Cosenza.
La fuga e la nuova Nazaret
Gioacchino a un certo punto lasciò l’ordine cistercense, con il permesso del papa, per ritirarsi come eremita. Il gesto non fu gradito agli altri monaci, tanto che fu dichiarato per un periodo fugitivus. In lui era forte l’idea di una riforma della Chiesa, che, abbeverandosi alla Scrittura, doveva essere povera, spirituale e monastica. Fu lui a profetizzare che per questa riforma sarebbero apparsi due uomini che l’avrebbero realizzata: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Dopo un primo periodo di ritiro a Pietralata (tra Rogliano e Marzi, sempre in provincia di Cosenza) decise di salire ancora verso il silenzio dell’altopiano silano dove individuò un sito, oggi riscoperto nel corso di tre campagne di scavi, che indicò come “Fiore”, l’antico nome di Nazaret. Qui nel 1188 fondò un cenobio con una chiesa. Ben presto, in questo monastero iniziarono a ritirarsi, per vivere una vita in solitudine e in preghiera, numerosi frati. Qui, ma anche nel corso delle sue permanenze in altre abbazie, Gioacchino ebbe modo di scrivere oltre venti testi di commento o riferiti alla Sacra Scrittura; la critica attuale ne considera autografi una ventina, anche se gliene vengono attribuiti almeno altrettanti. Molto probabilmente, invece, questi furono composti da alcuni seguaci. Gioacchino “da Fiore” – come è comunemente conosciuto – fra i primi a parlare di Concordanza tra Antico e Nuovo Testamento e a descrivere lo svolgersi della storia impregnata della presenza trinitaria.
Segnando una svolta nell’annuncio del tempo nuovo e del ritorno di Cristo, egli fu il primo a mettere in discussione le tesi di Sant’Agostino riguardo alle interpretazioni del libro dell’Apocalisse proponendo l’idea che l’ultima battaglia tra Dio e Satana (ligatio Sathane per annos mille) era ormai imminente. I suoi avversari cercarono nuovamente di sbarazzarsi di lui, approfittando di questa sua nuova teoria per accusarlo di essere un “millennarista” ovvero un eretico che annunciava la fine immediata del mondo.
Tuttavia, Onorio III, il papa che ha approvato la regola di san Francesco, protesse Gioacchino, intuendo il valore profondo del pensiero dell’abate. Egli infatti fu tra i pochi a difenderlo dai suoi nemici e da quanti volevano appropriarsi della sua autorità culturale ma soprattutto dei beni del suo Ordine.
L’Ordine florense
L’Ordine, detto “florense” dal nome del sito dove si trovava, aveva ottenuto da papa Celestino III il 25 agosto del 1196 l’approvazione della regola. La santità della vita, l’autorevolezza morale e culturale, intanto, gli avevano fatto acquistare fama e stima agli occhi dei potenti, tanto che il tenimentum Silae e quello Floris anno dopo anno si ingrandivano grazie alle offerte dei grandi benefattori. Tancredi, Enrico VI, Costanza d’Altavilla e Federico II, che ne riconoscevano l’autorità ed il rigore morale, negli anni avevano aumentato le donazioni e i possedimenti a favore dell’Ordine nato nel cuore delle montagne calabresi; monaci dediti alla contemplazione, alla lettura, ma anche al lavoro e alla costruzione di grange e di chiese, erano diventati una grande realtà ecclesiale. Tutto aveva un tocco della loro spiritualità, finanche le grandi chiese che andavano realizzando: la grande abbazia di Fiore soprano (oggi San Giovanni in Fiore) e la stessa Cattedrale di Cosenza, segnate indelebilmente dal pensiero teologico trinitario che le caratterizzò come gotico florense dove, all’elevazione della pietra, viene unita la forza avvolgente della luce.