Cultura
Un po’ di Calabria nella letteratura di Cesare Pavese
Pavese Festival Off e Paesi Tuoi Festival hanno omaggiato lo scrittore piemontese, ricordando la sua esperienza dolce e amara nel Sud Italia
Cosa lega la nostra Calabria alla regione Piemonte? Un fil rouge che unisce due regioni geograficamente distanti fra loro, accomunate dalla stessa rigogliosa eredità culturale, è la letteratura di Cesare Pavese.
Cerchiamo di capire quanta Calabria ci sia nel pensiero di quest’illustre personaggio.
Cesare Pavese è tra quegli autori della letteratura italiana attivi nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Il lasso di tempo compreso tra il 1925 e il 1950 è caratterizzato dal susseguirsi di tutta una serie di fenomeni: l’affermazione dei fascismi in Europa, la nascita dello stato socialista in Russia, la Grande Crisi del 1929-32, la crisi del liberalismo, con il venir meno del riconoscimento delle libertà individuali, il collasso del liberismo in campo economico, il secondo conflitto mondiale, la Resistenza ai totalitarismi, l’irruzione delle masse sulla scena politica, il passaggio dalla monarchia alla Repubblica in Italia, la ritrovata democrazia, il boom economico, la destalinizzazione e la guerra fredda.
Sul piano letterario e artistico, nonostante la presenza delle avanguardie, in Europa prevale un certo spirito post-avanguardistico e, a volte, anti-avanguardistico, che trascina con sé il bisogno di recuperare la tradizione e il classicismo. La tradizione riemerge con il rifiorire di una lirica pura di stampo intimo-esistenziale, volta a escludere qualsiasi riferimento filosofico e politico. Negli anni Trenta vengono riattualizzate le tendenze simboliste e nasce la poesia ermetica, contraddistinta da una certa chiusura e da un’indubbia difficoltà di interpretazione dei versi. Si impone, sempre negli anni Trenta, il realismo anti-simbolista e anti-ermetico di derivazione sabiana, che pretende un’adesione alla realtà senza alcuna forma di mistificazione (a quest’ultima corrente aderirà anche Pavese). Non mancano il filone metafisico con il suo allegorismo dantesco, che ritroviamo nella letteratura di Montale, e le esperienze del realismo magico (Bontempelli), del nuovo realismo e del neorealismo. In particolare quest’ultimo movimento letterario, che si consolida tra la Liberazione e gli anni Cinquanta, si rifà ai modelli ottocenteschi e si qualifica per un certo impegno politico e ideologico assente nel “nuovo realismo” degli anni Trenta, da cui comunque deriva. Il neorealismo accentua la necessità del ritorno alla realtà ed esprime l’esigenza di “andare verso il popolo”, trattando l’esperienza della guerra e della Resistenza e lasciando aperto uno spiraglio di fiducia nella ricostruzione del paese.
Proprio in questo contesto storico-letterario si muove Cesare Pavese, nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe in provincia di Cuneo (Piemonte) il 9 settembre 1908, e deceduto a Torino il 27 agosto 1950. È un attento traduttore di scrittori americani (Melville, Dos Passos ecc) ed è impegnato politicamente e culturalmente (note le sue collaborazioni con Einaudi e con riviste quali la “Nuova Cultura”). Evita, fin dai primi anni della sua produzione letteraria, qualsiasi approccio lirico-soggettivo, ma anche qualsiasi intento musicale e retorico. Ciò che gli interessa è rappresentare situazioni individuali realistiche e oggettive, esterne alla sua soggettività. Mostra, ad esempio, un’attenzione per la vita contadina, soffocata dal regime fascista e senza possibilità di cambiamento, descritta ne “Lavorare stanca” (1936), privilegia nelle sue opere personaggi come gli anziani e i giovani, capaci di penetrare nel tessuto sociale per far comprendere la solitudine dell’uomo contemporaneo, così come accentua l’inutilità delle ribellioni dinnanzi alla situazione del momento storico in corso. Pavese recupera anche il mondo dei miti, inteso come scissione della modernità dalla radice e dall’essenza dell’uomo – come ricorda Romano Luperini. La sua ricerca artistica spazia dall’impotenza dell’intellettuale al ritorno nell’arcaico come modalità di sopravvivenza umana. Il critico Giorgio Barberi Squarotti, nel suo volume “La narrativa italiana del dopoguerra”, aggiunge che il pensiero di Pavese non può essere compreso senza far riferimento alle “angosce, alle nevrosi, alle ossessioni, ai moti oscuri di dentro, all’inconscio, ai segreti inconfessabili”, ma anche alle inquietudini e alle tragedie moderne considerate inevitabili per conoscere bene il mondo. La prima fase della sua letteratura è segnata da una certa vena naturalistica e decadente, come si intravede nel romanzo “Paesi tuoi” (1941) in cui l’ambientazione contadina naturale si accompagna ad atmosfere cupe e in declino. Qui si precisa il modello contadino delle Langhe piemontesi come complessa metafora dell’inconscio privato e collettivo, dei ricordi ancestrali, delle passioni latenti nell’animo dell’uomo e dell’ossessiva ricerca dei fantasmi. All’indomani del secondo conflitto mondiale Pavese si accinge a sviluppare la seconda fase della sua letteratura, che diventa più impegnata in senso etico-politico. “La casa in collina” (1948) e “La luna e i falò” (1950) sono i suoi due romanzi migliori del dopoguerra. Nel primo emerge il coraggio dell’autoanalisi: l’intellettuale dinnanzi al pericolo della guerra e al bisogno della Resistenza è isolato e trova rifugio su una casa in collina per sfuggire ai bombardamenti. Il messaggio lanciato dallo scrittore riguarda l’insensatezza della guerra contro cui non ci sono possibilità se non quella della fuga. La guerra è capace di rendere vana la realtà e rende la storia priva di valore. Nel secondo romanzo prosegue con i temi della solitudine e dell’estraneità e con il ritorno al paesaggio dell’infanzia, che è pur sempre una possibilità di valorizzazione delle radici primordiali. Emerge dolorosamente lo smarrimento della propria identità e la lontananza dal proprio paese, reso irrimediabilmente “altro” a causa dei conflitti.
C’è un evento storico che ha segnato profondamente la vita e il pensiero di Cesare Pavese. Nel maggio del 1935 il poeta viene arrestato per via dei suoi rapporti con il gruppo liberal-socialista e antifascista “Giustizia e Libertà” di Leone Ginzburg, e viene mandato al confino a Brancaleone in Calabria, dove vi resta fino al 1936 quando fa ritorno a Torino riprendendo la sua attività culturale. Il 9 agosto 1935 Pavese, giunto a Brancaleone, scrive: “Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano di tenermi buono e caro. […]. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono molti maiali, e le anfore si portano in bilico sulla testa. Imparerò anch’io e un giorno mi guadagnerò la vita nei varietà di Torino … La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”.
È evidente dalle parole dell’autore l’affettività e l’agio provati in quella zona limitrofa di Reggio Calabria, dove la cordialità e la solidarietà dei calabresi riescono in parte a lenire le sue sofferenze, causate dalla sua situazione di recluso senza libertà. Parole che abbattono qualsiasi pregiudizio verso il Meridione e che accendono la speranza anche in momenti estremi, in cui sembra non esserci possibilità di salvezza. Da lui viene un grande elogio alla civiltà greca di cui la nostra bella Calabria è intrisa, diventando nei secoli la culla della manifattura più raffinata, dei valori umani più sacrosanti, dell’educazione e della formazione.
Oggi la casa di Pavese a Brancaleone calabro, ubicata lungo il Corso Principale della località reggina, è una casa-museo molto curata e visitata, nella quale è vivo lo spirito dello scrittore immerso nella lettura dei libri che la sorella gli manda, e a cui egli indirizza la maggior parte delle sue lettere (circa 78). In queste missive lo scrittore confessa preoccupazione e solitudine e tratteggia la sua esperienza di confinato in Calabria.
Sulla costa ionica reggina, Pavese scrive un diario autobiografico, pubblicato postumo nel 1952 da Einaudi e intitolato “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”. Qui passa in rassegna quindici anni della sua vita inquieta ma, al contempo, parla realisticamente della gente del sud che ha conosciuto e del paesaggio che ha visto. Fra le pagine di questo diario rivivono i profumi calabresi grazie alle meravigliose descrizioni del mare e dei gelsomini. In questo modo Cesare prepara il materiale a partire dal quale elaborerà il romanzo “Il carcere” del 1939, in cui sottolinea i sentimenti attuali di estraneità e di solitudine come dati esistenziali e universali, vissuti da chi come lui è costretto a stare lontano dalla sua terra in qualità di recluso.
La vicenda storico-letteraria di Pavese dimostra come la letteratura possa superare le barriere geografiche e possa unire realtà culturali diverse come la Calabria e il Piemonte.
La collaborazione fra queste due regioni si è resa possibile grazie alla manifestazione piemontese “Pavese Festival” che, come ogni anno, rende omaggio al grande scrittore. La nuova edizione si svolgerà dal 2 al 9 settembre a Santo Stefano Belbo e avrà per tema “Vivere senza scrivere non vivo”, espressione tratta da una delle ultime lettere di Pavese nella quale è evidenziato il legame indissolubile tra vita e letteratura, un legame che segnerà tutta l’esistenza e la professione del pensatore. Già quest’estate si è tenuto il “Pavese Festival Off”, un anticipo dell’evento di settembre, che ha portato la kermesse in tutta Italia e anche al Sud.
A Brancaleone in Calabria si è svolta l’iniziativa “Paesi Tuoi Festival”, ispirata al romanzo pavesiano “Paesi tuoi” e conclusasi il 5 agosto. Domenica 4 agosto è stato ricordato l’arrivo dello scrittore in Calabria. Alle 17 è partita, dalla stazione di Brancaleone, una passeggiata tra i luoghi del confino con arrivo presso la casa in cui soggiornò l’intellettuale. Alle 19 c’è stata una tavola rotonda che ha visto la presenza di esperti letterati, tra cui la professoressa Monica Lanzillotta, autrice della nuova edizione a stampa de “Il Carcere” (Rubbettino), Giovanna Romanelli, autrice di “Cesare Pavese e le donne. La “fragile illusione” dell’amore”, e Pierluigi Vaccaneo, direttore della “Fondazione Cesare Pavese” che ha ideato nel 2004 il “Pavese Festival”.