Territorio
Vito Teti: “il passato non si può riproporre”
Una comunità deve ricercare la propria identità attraverso le proprie vicissitudini e non per i bisogni di uno studioso che tenta di ripristinare ciò che non può più esistere.
Vito Teti è professore di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Numerose le sue pubblicazioni tra cui ricordiamo, un’antropologia del restare, 2011 e Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento, 2012, Pietre di Pane, lavoro critico, 2014 e da poco è stato presentato il nuovo lavoro “Terra inquieta”. Il professor Teti ci ha parlato di tradizioni e di riti che si svolgono durante la settimana santa. Cosa è tradizione e cosa non lo è.
Nella settimana santa sono tante le rappresentazioni sceniche che si svolgono nei paesi.
Il primo invito è quello di guardare con grande rispetto a rituali che hanno significato religioso, antropologico che raccontano e riflettono la vita dell’intera comunità per cui ogni comunità si riconosce in questa tradizione che pero si rinnova sempre. Racconta il rapporto tra la morte e la vita con un esito che ha a che fare con la resurrezione e quindi per ogni comunità è importante, è decisiva. Chiaramente poi ci sono in diverse località dei riti, delle tradizioni che hanno anche degli aspetti teatrali spettacolari, drammatici che attirano solo l’attenzione dei turisti, degli spettatori, dei giornalisti.
C’è bisogno di un’intesa, di un’unione con la Chiesa locale dal momento in cui si tratta di rappresentazioni sacre?
Certo. Ma tanti sono i contrasti tra gli organizzatori di questi eventi e la Chiesa locale poiché molte volte si perde il centro e lo scopo di questi eventi. Queste tradizioni dovrebbero coinvolgere tutta la comunità che si riconosce nella morte e resurrezione. Oggi i nostri paesi, le nostre comunità devono interrogarsi sulla loro identità per evitare discrasie e devono tendere sempre all’unità e ad un’idea di comunità. Se non c’è la vocazione all’unità, alla condivisione, alla compartecipazione il rischio è che questi nostri segni grandi e piccoli perdano di senso e scompaiano come molte volte capita per decenni all’interno dei paesi.
Noi possiamo parlare di tradizione soltanto quando vi è un ripetersi costante negli anni. Se viene interrotta possiamo parlare ancora di tradizione oppure no?
La tradizione è qualcosa che si tramanda, che si trasmette nel corso del tempo. La tradizione non è mobile ma si modifica continuamente in base ai nuovi tempi, alle problematiche. I riti di oggi, della società nostra, nei paesi nostri, non possono più essere i riti della società agro-pastorale di un tempo, perché sono cambiate le relazioni sociali, le situazioni lavorative, c’è l’immigrazione. Le tradizioni quindi si modificano nel tempo. Quando una tradizione si interrompe e viene ripresa vuol dire che dal passato arrivano delle tracce ma non si può più parlare di tradizione, ma di una invenzione della tradizione che comporta una messa a punto delle proprie forme di percepire il rapporto con il luogo. Noi dobbiamo fare i conti sempre con il tempo che cambia, processo che è avvenuto costantemente nella storia dell’uomo e della chiesa, dunque bisogna adattarsi a nuove disposizioni e regole. I riti della settimana santa non dovrebbero svolgere più le funzioni che svolgevano nel passato. Un conto è un rito, una festa di una società postmoderna in paesi che hanno elementi arcaici moderni che vivono la disoccupazione giovanile di ragazzi laureati, è un modo completamente diverso da quello dei contadini, dei pastori del passato. Quindi non si può riproporre assolutamente il passato cosi com’è stato.
* Intervista integrale sul numero di Parola di Vita del 2 aprile