1918-2018. Nell’Europa dei nazionalismi tornano antiche minacce
Un secolo fa terminava la Grande Guerra. Decine di milioni di vittime. E poi feriti, mutilati, distruzioni in ogni angolo del Vecchio continente. Cosa ci insegna il passato? Il bene prezioso della pace e della democrazia, i nuovi pericoli rappresentati da politici populisti e da cittadini male informati...
Novembre 1918: i combattimenti si fermano. Si apre il tempo dei conti della prima guerra mondiale nella storia dell’umanità: più di cento Paesi in guerra, in tutti i continenti, une mobilitazione massiva di combattenti, anche delle popolazioni civili. Un massacro di massa, la prima guerra totale della storia. 9.700.000 morti, 21.200.000 feriti, centinaia di migliaia di mutilati. Bisogna aggiungere le vittime civili, quelle delle malattie, senza dimenticare il primo genocidio, degli armeni, nell’impero ottomano nel 1915. Al bilancio umano bisogna aggiungere le distruzioni materiali, la crisi economica, le sofferenze. I Paesi vincitori hanno parlato di vittoria. Ma è davvero possibile parlare di vittoria, quando essa è fondata su tale strage? Un grande scrittore francese, reduce dalla guerra, Roland Dorgelès domandava a proposito delle perdite nella battaglia di Verdun: “300.000 morti, fanno quante lacrime?”. In queste condizioni, quale pace costruire? Come costruire una vera pace? La guerra è stata il frutto dei nazionalismi che si sono rafforzati durante l’Ottocento. La guerra è stata il frutto dell’affermazione degli odi e dei pregiudizi, delle paure dell’altro. È stata il risultato delle ambizioni imperialistiche, della corsa agli armamenti, della ricerca di potenza di ogni nazione a danno della nazione vicina e dei popoli colonizzati. La paura, l’odio, la ricerca della potenza non sono spariti alla fine del 1918. Papa Benedetto XV – che avrebbe voluto, senza successo, durante il conflitto imporre una guerra “senza vinti né vincitori” – si preoccupava di nuovo nel 1920 di una pace costruita “all’ombra delle baionette”. Il trattato di Versailles del 28 giugno 1919, e gli altri trattati che riorganizzarono l’Europa, sono stati imposti ai vinti, senza vero negoziato. Bisogna per esempio fermarsi sull’articolo 231 del Trattato di Versailles: “I Governi alleati e associati dichiarano, e la Germania riconosce, che la Germania e i suoi alleati sono responsabili, per averli provocati, di tutte le perdite e di tutti i danni sopportati dai Governi alleati e associati e dai loro cittadini in conseguenza della guerra imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. Tutto sta in tale dichiarazione: lo spirito di rivincita, le riparazioni allucinanti imposte alla Germania (“la Germania pagherà”, si diceva), lo smantellamento delle sue forze armate, la perdita delle sue colonie, la riduzione del suo territorio. Ma anche la distruzione degli imperi, dell’impero austro-ungarico a vantaggio di piccoli Stati nazionalisti, dell’impero ottomano a vantaggio delle potenze britannica e francese, quando l’impero russo viveva la tragedia della guerra civile. Imporre la responsabilità della guerra a un unico campo era una negazione dei fatti: la responsabilità della guerra fu condivisa da tutti i governi.Il grande politico francese Jean Jaurès l’aveva affermato nel suo ultimo discorso pronunciato a Lione il 25 luglio 1914: denunciò tutto un sistema di relazioni internazionali fondato sul confronto, nel quale la Francia aveva una sua piena responsabilità: “Ogni popolo appare attraverso le strade dell’Europa con la sua piccola torcia in mano e adesso ecco l’incendio”. Questo discorso valse a Jaurès l’odio dei nazionalisti. Fu assassinato cinque giorni dopo. Purtroppo la lezione dell’“inutile strage”, come diceva Benedetto XV, non è stata recepita. Al contrario, le sofferenze hanno inasprito i sentimenti di ostilità. Per questa ragione è indispensabile porre la questione: come si perde la pace? Come si può costruire la pace? Nel 1945, e poi nel 1950, alcuni statisti hanno saputo pensare altrimenti, ricercare altre soluzioni, anche grazie al lavoro di riflessione maturato durante le Resistenze in tutti i Paesi occupati dai nazisti. Erano uomini che guardavano lontano e hanno saputo avviare la costruzione di un’Europa nuova, con metodi radicalmente nuovi, fondati sulla riconciliazione tra gli ex belligeranti, e su deleghe di sovranità, cominciando con il carbone e l’acciaio. La Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, lanciò la costituzione delle prime Comunità europee, poi Unione europea. Questa politica ha consentito all’Europa alcuni decenni di pace. Ma la storia non è finita. Di nuovo vari politici in Europa ragionano come nel 1919, vogliono suscitare gli odi, provocare le paure. Diversi populismi sfruttano le inquietudini di cittadini mal informati, e le debolezze delle istituzioni, si alleano a ideologie neofasciste, per tentare di distruggere l’opera di pace costruita dall’Unione europea, Premio Nobel della Pace nel 2012. Leggere di nuovo gli anni 1919-1920 è indispensabile se non vogliamo viverli ancora. La pace non è mai definitivamente assicurata, perché è il frutto di una costruzione democratica, di una riflessione. La guerra è un istinto nascosto nel fondo di ogni popolo.
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