Cattolici del Niger rischiano per aiutare i nigeriani islamici
Serge Xavier Oga è un operatore della Caritas della diocesi di Maradi, in Niger: un milione di chilometri quadrati che comprendono anche aree di frontiera con la Nigeria. Ed è proprio in una di queste, quella di Diffa, che decine di migliaia di persone si sono rifugiate per sfuggire a Boko Haram. Si divide il poco che si ha.
“La solidarietà che supera le frontiere è il segno che la pace è possibile”. Serge Xavier Oga è un operatore della Caritas della diocesi di Maradi, in Niger: un milione di chilometri quadrati che comprendono anche aree di frontiera con la Nigeria. Ed è proprio in una di queste, quella di Diffa, che decine di migliaia di persone si sono rifugiate per sfuggire ai fondamentalisti di Boko Haram. Secondo l’ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) erano 64mila, alla fine di maggio, i nigeriani passati nel paese vicino. Praticamente tutti erano di religione islamica, ma per assisterli si sono mobilitate anche le strutture della diocesi cattolica. Solidarietà diffusa. “La nostra missione, la missione della Chiesa, è di poter aiutare chiunque, senza distinzioni di religione: la Chiesa si mostra solidale con tutti quelli che si trovano dove c’è una crisi. È quel che Gesù ci ha detto di fare”, spiega Oga. Centomila euro sono la somma che l’agenzia ha potuto mobilitare, in un paese dove i cattolici sono appena 25mila su una popolazione di diciotto milioni. “Non abbiamo mezzi enormi - ammette l’operatore della Caritas - ma cerchiamo di fare piccoli gesti e di restare sul terreno, qualunque sia il pericolo, per testimoniare questa solidarietà verso i più poveri e i sofferenti”. Le risorse sono state comunque sufficienti per garantire un sostentamento a 2.400 persone, tra rifugiati e abitanti del luogo. Sono stati questi, infatti, a prendere su di sé per primi il peso dell’emergenza. “Quando i nigeriani sono scappati da Boko Haram - spiega Oga - sono state da subito le popolazioni locali che li hanno accolti, non sono stati aperti campi, ma si è condiviso tutto all’interno delle case fino a che non è rimasto quasi nulla da condividere: e si trattava di persone completamente sconosciute fino al giorno prima”. Nel momento in cui gli operatori umanitari hanno organizzato l’assistenza sul terreno, continua “sono stati gli stessi nigeriani che ci hanno detto: ‘Senza questa solidarietà non ce l’avremmo fatta ad aspettare il vostro arrivo’, e anche adesso che le organizzazioni internazionali sono arrivate, queste persone preferiscono continuare a restare con le famiglie locali piuttosto che trasferirsi nel campo che è stato preparato per loro”. Il coraggio di esserci. Le stesse famiglie del posto, però, hanno bisogno di assistenza, perché alla necessità di provvedere al mantenimento dei profughi si sono aggiunte anche le piogge molto più scarse del previsto - la stagione è durata “solo due mesi”, lamenta Oga - con l’impossibilità di fare raccolti abbondanti. Ma, soprattutto, nell’area è stato proclamato uno stato d’emergenza, motivato dalla necessità di combattere i fondamentalisti. Il Niger partecipa infatti alla forza militare multinazionale che vari paesi dell’area hanno dispiegato contro il gruppo armato. L’impatto sulla vita quotidiana è stato importante, soprattutto per categorie come quella dei guidatori di moto-taxi, un mestiere molto diffuso tra i giovani. Ma anche la Caritas continua a distribuire aiuti, nonostante gli operatori conoscano bene i rischi. Gli integralisti hanno già dimostrato di potersi infiltrare anche nel territorio del Niger e proprio Diffa è stata attaccata due volte, l’8 e il 10 febbraio di quest’anno. “Chiunque aiuti le loro vittime è considerato da Boko Haram un traditore e questo è il primo pericolo, per chiunque. In quanto cristiani, poi, questa per noi è una zona a rischio, abbiamo paura che possa succedere quel che è accaduto in Libia o in Iraq per mano dello Stato islamico”, testimonia Oga. Ma, prosegue, “in realtà qui siamo tutti vulnerabili, i miliziani potrebbero colpire in qualsiasi momento anche senza prenderci di mira in quanto cristiani, questo è solo un elemento in più”. La scelta di restare sul terreno, però, ha anche altre radici. “Ciò che questa gente ha vissuto - ricorda ancora l’operatore umanitario - supera i pericoli che esistono per noi: qui ci sono persone che hanno subito atrocità, donne che hanno visto rapire i mariti davanti ai loro occhi, che non hanno più notizie dei loro bambini”. E conclude: “Davanti a un grido come questo non si può restare a pensare ai rischi che si potrebbero correre: la nostra missione è di assistere questa gente e quando lo facciamo, vediamo la gioia sui loro volti ed è questo che ci dà il coraggio di continuare ad essere qui ad aiutare”.
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