L'Europa sarebbe meno europea senza il Regno Unito
Giugno è il mese del voto britannico per decidere se rimanere o meno nell'Unione. La campagna entra nella fase più calda: ma quanta consapevolezza hanno gli elettori della complessa materia e della posta in gioco sul piano economico e politico? Di certo una vittoria del No favorirebbe i nazionalismi e i populismi in ogni Paese, mentre il progetto comunitario entrerebbe in una ulteriore fase disgregativa. Prosegue, con il sesto contributo, il dibattito avviato dal Sir sul prossimo referendum.
Il primo ministro britannico David Cameron gioca con l’Europa, e gioca con il suo Paese. Strana politica da parte di un leader che dice di voler restare nell’Unione europea, ma lancia – in nome di una falsa interpretazione della democrazia – una consultazione popolare su un argomento tanto complesso, affidandosi a un’alternativa secca e a una sola risposta: Sì o No. Cameron porta così il suo proprio partito a divisioni mai viste, mentre il Paese si lacera.
Il referendum è sempre molto rischioso perché non è vera democrazia a meno che l’argomento trattato sia semplice, alla portata di tutti, e permetta a ogni cittadino di avere un’opinione propria. Come può la maggioranza degli elettori britannici essere pienamente cosciente della posta politica ed economica in gioco per sapere se davvero il bene del Paese sta o no all’interno dell’Unione europea? L’abbiamo osservato in Francia nel 2005, a proposito del progetto di Costituzione europea sottoposto a referendum popolare: centinaia di articoli ai quali bisognava rispondere con stile manicheo. Altro esempio: lo scorso 6 aprile, gli olandesi hanno risposto No alla quesito su un patto di associazione tra Ue e Ucraina. Soltanto il 30% degli elettori ha votato, ma il 60% tra di loro ha scelto il rifiuto! Gli elettori erano veramente a conoscenza delle articolate e concrete implicazioni della scelta? Una decisione di cui peraltro nessuno misura ancora le conseguenze imposte da una esigua minoranza del corpo elettorale…
Il referendum di per sé – non solo quello britannico del 23 giugno, ma tutti – apre il campo alle emozioni, alla tentazione di votare non sulla questione posta ma contro o a favore del governo che ha organizzato la consulta, alla demagogia e all’espressione del populismo; lascia poco spazio alla riflessione serena e approfondita, nonché alla conoscenza del dossier in esame. La campagna elettorale in corso oltre Manica illustra perfettamente questo aspetto della crisi della democrazia, e nello stesso tempo la crisi dell’Europa.
Crisi dell’Europa? Difatti, dopo più di 60 lunghi anni di costruzione comunitaria, i nostri concittadini europei non vedono più gli effetti positivi di tale progetto: la pace, lo sviluppo economico, la libertà degli scambi di merci e degli uomini (pensiamo all’effetto Erasmus al livello delle università). Oggi si considera soltanto il discorso negativo sul funzionamento delle istituzioni (senza nemmeno distinguere poi tra responsabilità e poteri nazionali e quelli spettanti all’Ue), sulla loro incapacità a rispondere alle sfide attuali, dalle questioni economiche e finanziarie alla questione dell’accoglienza di rifugiati, e anche alla protezione contro il terrorismo. L’Europa è entrata in una tendenza di fondo antiunitaria, di ripiegamento su se stessa, di ritorno dei nazionalismi.
Tra populismi e nazionalismi l’Europa è minacciata, e con essi, l’umanesimo europeo è minacciato. In tale contesto, l’uscita possibile del Regno Unito dalla “casa comune” rappresenta un vero pericolo. Per due ragioni almeno. La prima è il fatto che il momento scelto per il referendum sul cosidetto Brexit è negativo, tanto dal punto di vista economico che sociale e politico. In particolare l’Europa si sta confrontando non soltanto con difficoltà economiche e sociali interne, ma anche e forse soprattutto con l’emergenza migranti e con una guerra provocata e nutrita dall’islamismo. Tale guerra ha colpito Londra, Madrid, Parigi, Bruxelles, ma anche Mosca e Istanbul, e colpisce in Africa gli alleati dell’Europa. La situazione internazionale è veramente pericolosa. Gli equilibri sociali, finanziari, economici sono fragili. Il Brexit provocherebbe una nuova tempesta che gioverebbe a tutti i nazionalisti ed estremisti del continente, che non sono pochi. La seconda ragione viene dal contributo che il Regno Unito ha dato da sempre all’Europa,
dalla cristianizzazione del continente da parte di monaci inglesi e irlandesi, al posto della persona umana nella società, i diritti umani (il Bill of Rights è del 1689), la democrazia parlamentare, il liberalismo, senza dimenticare la resistenza eroica al nazismo. Certo, le battute a proposito di una nazione che non sarebbe davvero europea, che guarderebbe verso l’Atlantico piuttosto che verso il continente, non mancano, soprattutto in Francia dove gli stereotipi ostili agli inglesi sono numerosi e forti. Però il distacco del Regno Unito dall’Unione europea sarebbe un abbandono che comporterebbe un rischio di deriva per tutti, per gli inglesi come per gli europei. L’Europa senza il Regno Unito sarebbe meno europea. Bisognerebbe ricordarsi l’entusiasmo che aveva accolto l’adesione britannica alla Comunità economica europea il 1° gennaio 1973: allora si pensava che l’Europa non potesse proseguire sul suo cammino di unità senza il Regno Unito. 43 anni dopo, come pensare che il contrario sia giustificato?
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