L'Islam italiano messo alla prova del pluralismo
Sono circa 1,6 milioni i fedeli musulmani che vivono in Italia. Una realtà in crescita e che va declinata al plurale, in quanto le comunità sono tante e diverse tra loro. Ancora difficile individuare la strada per il riconoscimento giuridico delle associazioni islamiche. La collaborazione continua tra comunità musulmane, mondo accademico e ministero dell'Interno.
Non può che essere declinata al plurale la presenza dell’Islam in Italia perché sempre più variegate sono le comunità che radunano nel nostro Paese i fedeli musulmani. Pluralità come ricchezza, ma anche come sfida soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento e il rapporto con le istituzioni. Ne sono convinti tre ricercatori italiani - Maria Bombardieri dell’Università degli Studi di Padova, Antonio Angelucci dell’Università degli Studi dell’Insubria e Davide Tacchini dell’Università Cattolica di Milano - che hanno provato a declinare questa realtà nel volume “Islam e Integrazione in Italia”, edito da Marsilio. Un Islam italiano. “Quando parliamo di Islam nel nostro Paese - spiega Maria Bombardieri - ci riferiamo a una presenza di 1,6 milioni di persone che si è andata strutturando negli ultimi decenni soprattutto per effetto di due ondate migratorie: la prima negli anni ’70 con giovani studenti provenienti dal Medio Oriente e la seconda, negli anni ’90, rappresentata da migranti dal Maghreb in cerca di lavoro. Negli ultimi anni la situazione si è ulteriormente arricchita con l’arrivo di nuove comunità e con un crescente numero di italiani convertiti all’Islam: non vi è dunque un’egemonia, ma una pluralità e questa credo rappresenti una ricchezza per la nostra società che non sempre viene compresa. Oggi più che parlare di Islam in Italia dovremmo parlare di Islam italiano”.
Il nodo dell’intesa con lo Stato. La pluralità come ricchezza, ma anche come sfida. “Viene da chiedersi - continua Bombardieri - quanto questo pluralismo venga valorizzato ad esempio nelle moschee o nelle associazioni che tendono spesso ad essere realtà chiuse. L’invito è quello di guardare ai luoghi di culto come laboratori di pluralismo e come antidoto al radicalismo che tende ad affermarsi soprattutto on-line”. Una difficoltà di dialogo che ha ostacolato, in questi decenni, il rapporto con le istituzioni, soprattutto nel tentativo di raggiungimento di un’intesa. “Il primo scoglio - spiega Antonio Angelucci - è rappresentato dalla natura stessa delle associazioni in cui i fedeli musulmani si sono strutturati. Salvo rare eccezioni (penso alla moschea di Roma) non ci troviamo di fronte ad associazioni la cui finalità statutaria è quella religiosa bensì a onlus con finalità assistenziali o culturali. Questo rappresenta un grande ostacolo nei rapporti con le istituzioni sia a livello locale sia nazionale”. Il ruolo degli Imam. Un tema che si allarga anche al ruolo e al riconoscimento degli Imam come ministri di culto. “Ai tempi delle prime migrazioni, penso agli anni ’70 in particolare, - precisa Davide Tacchini - l’Imam era solitamente una persona un po’ più grande d’età e con un livello di istruzione maggiore che diventava un punto di riferimento, non solo religioso, per i giovani. Oggi la realtà è molto cambiata: le grandi città europee - penso a Londra, Parigi e Milano - sono diventati snodi importanti del mondo islamico, un Islam che si trova però a vivere una condizione di minoranza. Da questo punto di vista è necessario che anche la figura dell’Imam sia appositamente formata sia da un punto di vista dottrinale (e questo compito spetta ai musulmani stessi), ma anche normativo e sociologico per comprendere le dinamiche delle società in cui si inseriscono”. |
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