L'Unione politica in bilico fra Atene e Mediterraneo
Dodici mesi fa la scelta dell'ex premier del Granducato alla guida della Commissione. Il programma di lavoro del nuovo Collegio puntava a rilanciare l'integrazione e ad ammodernare il continente rispetto alle sfide globali. Ma la crisi greca, le spinte migratorie e il rafforzarsi dei nazionalismi hanno tagliato la strada ai progetti dell'Esecutivo.
“Il 25 maggio i cittadini hanno parlato, ci hanno detto le loro attese, le loro angosce”. Ora “mettiamo da parte le sterili contrapposizioni ideologiche e i nazionalismi”, “assumiamo il pragmatismo come metodo e produciamo risultati concreti per tutti i cittadini”. Era il 15 luglio 2014 e Jean-Claude Juncker si apprestava a essere votato dall’Europarlamento come prossimo presidente della Commissione (sarebbe entrato in carica il 1° novembre succedendo al portoghese José Manuel Barroso).
Lussemburghese, della famiglia politica dei Popolari, a lungo premier del Granducato, già presidente dell’Eurogruppo, Juncker, in base alla nuova prassi dettata dal Trattato di Lisbona era balzato in pole position per la guida dell’Esecutivo in quanto il Ppe era stato il partito più votato dai cittadini dei 28 Stati Ue alle elezioni del Parlamento di Strasburgo tenutesi il 22-25 maggio precedente.
Così nel suo discorso programmatico, dopo aver invitato l’Europarlamento e più ancora i governi degli Stati aderenti a produrre risultati per il bene dei cittadini, unendo una buona dose di idealismo e realismo, aveva aggiunto: “La moneta unica non divide ma protegge l’Europa, la sua economia, i suoi cittadini”. Ancora: “Voglio una Commissione che sia politica, più politica”. Non da ultimo: “L’Europa non si costruisce contro gli Stati, ma con gli Stati”.
Chissà se oggi, a un anno dall’avvio del suo mandato, Juncker, europeista convinto, ripeterebbe lo stesso discorso.
In questi 12 mesi il Collegio non ha potuto concentrarsi appieno sul programma di lavoro quinquennale presentato al Consiglio dei capi di Stato e di governo e al Parlamento Ue al momento di insediarsi a Bruxelles. In quel programma figuravano tre punti principali. “Occupazione, crescita e investimenti” era il primo titolo, con l’intento di rispondere alla grave crisi che dal 2008 aveva messo in ginocchio l’economia europea. In quella direzione sarebbe emersa la proposta del Piano per gli investimenti da 315 miliardi che deve ancora diventare operativo. Il secondo “pilastro” era il “Mercato unico digitale”, per rendere più moderna e interconnessa l’Europa. Quindi l’“Unione dell’energia e clima”. Nel calendario della Commissione figuravano altri punti essenziali: il completamento dell’Unione economica e monetaria (compresa l’Unione bancaria), il trattato di libero scambio Ue-Usa noto come Ttip, la giustizia e diritti fondamentali, le migrazioni e l’asilo, il ruolo dell’Unione sugli scenari internazionali.
Ampia parte della seconda metà del 2014 - in corrispondenza della presidenza semestrale italiana del Consiglio dei ministri Ue - si era quindi concentrata sul rinnovo e la messa a regime delle varie istituzioni comunitarie: il Parlamento neoeletto, la Commissione (con la scelta degli altri 27 commissari), l’individuazione dell’Alto rappresentante per la politica estera (la scelta poi ricadde sull’italiana Federica Mogherini) e del presidente del Consiglio europeo (il polacco Donald Tusk).
Nel frattempo due grandi emergenze continentali esplodevano al punto da divenire, in questo intero anno, i veri temi del confronto Ue: ossia la Grecia e le migrazioni. Aspetti complessi e tragici allo stesso tempo: da una parte un Paese allo stremo, pressato da debiti esteri, crisi sociale e fiducia nella politica in caduta libera; dall’altra i barconi nel Mediterraneo e decine di migliaia di persone in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente speranzose di trovare la “terra promessa” nel Vecchio continente. Due nodi politici sui quali l’Europa si è dovuta scoprire pressoché disarmata sul piano legislativo e della possibilità di interventi concreti, oppure disunita.
Così la Commissione Juncker cercava faticosamente di tirare le fila di un’azione concertata fra i 28, mentre ci si doveva misurare con i nazionalismi che rialzavano la testa, la cui pretesa essenziale era, e rimane, di voltare le spalle ad Atene e di lasciar soli i Paesi mediterranei di fronte all’approdo in massa dei profughi. Senza trascurare altri ostacoli sopravvenuti, come l’indebolirsi del tradizionale asse europeo Berlino-Parigi e la decisione del governo di Londra di indire un referendum nel 2017 per decidere se restare oppure lasciare la “casa comune”. Ulteriori scogli si profilavano nel frattempo sul fronte orientale (Ucraina-Russia) e su quello occidentale (trattative in salita per il Ttip).
Così Juncker e la sua squadra hanno provato a tener fermo il timone per una risposta europea a problemi di caratura continentale, sfoderando più diplomazia che vere e proprie strategie di lungo corso, e abbozzando un primo nucleo di politica migratoria e nuovi, ulteriori “salvataggi” per la Grecia. Il bilancio del primo anno di Juncker presenta chiaroscuri: fare di meglio sarebbe stato forse possibile, ma con le spinte antieuropee in atto, sarebbe stato più probabile combinare di peggio.
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