L'agroalimentare dopo Expo
Le nostre eccellenze (soprattutto artigianali) non fanno ancora sistema.
Cos’è rimasto dell’Expo milanese, a distanza di un anno? Le strutture e poco più. Ma francamente nessuno s’illudeva che una kermesse di questo tipo potesse veramente diventare il trampolino di lancio mondiale del nostro agroalimentare: fosse così facile… È vero che appunto l’agroalimentare italiano ha punte d’eccellenza che, per qualità e quantità, l’intero mondo si sogna; ma il resto del mondo da tempo ha smesso di sognare e ha puntato molto sul fare business. Anche con quelle eccellenze italiane.
L’agricoltura, anzitutto. Soffre, nel 2016, degli stessi mali del 2015: frammentata, con difficoltà di sbocco nei mercati e nella grande distribuzione, con problemi di concorrenza che spesso la fanno soccombere. In più, ci si è messa la politica con l’embargo alla Russia che ha prodotto un unico, grande danno: la perdita delle esportazioni di nostri prodotti in quel grande mercato. Ci ha pensato la concorrenza a rimpiazzarli, mentre i russi stessi si attrezzavano per produrre in loco ciò che prima importavano. Da qui la rabbia della Coldiretti che qualche settimana fa ha organizzato un’imponente manifestazione di protesta.
Nel frattempo è crollato il settore latte, sommerso da quello straniero che arriva ai caseifici a prezzi insostenibili per i produttori italiani; ed è in grande sofferenza quello del grano duro, ingrediente principe della pasta su cui è nata una diatriba tra industriali e produttori nazionali (snobbati dai primi). Chi produce, lamenta la disattenzione verso il grano nazionale; chi lo acquista, sostiene che questo manca di qualità.
Situazione opposta a quella dell’olio, dove il mercato è fatto dagli stranieri e dal prodotto qualitativamente meno pregiato (e meno costoso), a tutto danno dell’ottimo olio nazionale. Nel frattempo, qui come in altri settori, imperversano le frodi – i Nas ormai beccano irregolarità una volta su 5 – “grazie” anche ad una legislazione che dà un tenero buffetto sulla guancia a chi tenta di avvelenare il prossimo suo.
All’estero, invece, continuano le imitazioni del made in Italy che scimmiottano nomi e produzioni, a tutto scapito delle nostre eccellenze. D’altronde noi facciamo prosciutti e parmigiani, che sono prodotti e non marchi: i secondi si tutelano anche nel deserto del Gobi, i primi nemmeno nei luoghi di produzione. Quel che fa più rabbia, è che ci siano pizzaioli e gelatai italiani in ogni angolo del globo; ma che i colossi mondiali del caffè, del gelato, della pizza surgelata, dei salumi siano nordeuropei o americani, fa male al cuore e al portafoglio. Pure l’anello finale della catena, la grande distribuzione, parla tutte le lingue meno quella italiana: non c’è una sola catena commerciale che abbia un punto vendita fuori dai nostri confini. E sono gli scaffali a fare la fortuna dei prodotti nazionali in giro per il mondo, come sanno perfettamente i francesi.
Quindi: cos’ha lasciato in eredità l’Expo? Forse la consapevolezza che abbiamo il petrolio in casa, ma che non sappiamo sfruttarlo a dovere. Gli italiani sono i migliori artigiani del mondo, ma faticano sempre a fare il passaggio a grandi industriali. È la pena che sconta pure il nostro settore agroalimentare, dove abbiamo un’unica eccellenza industriale di livello mondiale: la Ferrero con la sua Nutella. Da spalmare sul pane surgelato prodotto in Romania e cotto qui…
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