La Chiesa episcopaliana s'interroga: perché pregare per il Presidente Trump?
Si può pregare per un leader con il quale si è in profondo disaccordo? E se sì, la preghiera implica una benedizione, una lode o una accettazione del comportamento o della politica di quella persona? Sono le domande che da due mesi, da quando cioè Donald Trump è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti, rimbalzano nella Chiesa episcopaliana. È la prima volta che succede nella storia degli States ed è il segno - spiega il politologo Paolo Naso - di "un'America spaccata in due".
Il dibattito viaggia veloce sui social. Ha avuto inizio subito dopo l’elezione di Donald Trump a novembre ma è ancora acceso e crescente. Ad esserne coinvolta è la Chiesa episcopaliana, l’ala della Comunione anglicana a stelle e strisce. La domanda cruciale che da almeno due mesi molti episcopaliani si pongono è che cosa significa e, addirittura, se sia lecito oggi pregare per il 45 ° presidente degli Stati Uniti durante un culto pubblico.
Tutto è cominciato quando a novembre il vescovo Jeffrey Lee della diocesi di Chicago ha chiesto ai suoi fedeli di pregare per il neo-eletto presidente. Immediata è stata la reazione della diocesi sebbene la richiesta del vescovo di pregare non implicasse necessariamente di sostenere politicamente la nuova presidenza.
Quanto accaduto due mesi fa a Chicago non è rimasto un caso isolato. Ad essere chiamato in causa è il “Book of Common Prayer” al punto in cui, durante la liturgia eucaristica, si prega per “il nostro presidente, per i leader di tutte le nazioni, per coloro che hanno compiti di responsabilità”. In alcuni casi, nella preghiera può essere nominato espressamente il nome del presidente. Nelle discussioni – si legge in un articolo pubblicato dall’Episcopal news Service – alcuni invitano a fare distinzione tra la preghiera per la carica di presidente e quella per l’individuo. Altri ribattono che non possono accettare di sentire il nome Trump nella liturgia, “perché fa scattare in alcuni una reazione dovuta al suo passato sessuale, alla sua misoginia, ai commenti razziali, e al comportamento generale che ha avuto durante la campagna elettorale. Altri ancora dicono che non si può separare la preghiera per l’ufficio della presidenza da quella per chi ne è responsabile”.
Dunque la domanda che rimbalza nella Chiesa episcopaliana è: “Pregare per il presidente implica una benedizione, una lode e un’accettazione del comportamento o della politica di quella persona?”.
È stato poi fortemente contestato sempre in ambito episcopaliano il coinvolgimento della “Washington National Cathedral” e del suo coro all’insediamento di Donald Trump, tanto da spingere il presidente Michael Curry, il vescovo della diocesi di Washington, Mariann Budde, e il decano della cattedrale, Randolph Hollerith, a scrivere comunicati per dare risposte alle preoccupazioni sollevate dai loro fedeli. È il vescovo Michael Curry a farsi portavoce delle osservazioni: “Quando prego per i nostri leader, che cosa sto facendo? Posso pregare per un leader con il quale sono in profondo disaccordo?”. Pregare per i responsabili politici – osserva Curry – fa parte della profonda tradizione anglicana ed episcopaliana che però significa che si sta pregando “perché la loro leadership serva veramente non gli interessi particolari ma il bene comune”.
Profondo conoscitore degli Stati Uniti, il politologo Paolo Naso invita a contestualizzare il dibattito in un Paese, come gli Stati Uniti, dove fin dalla sua fondazione si celebra una sorta di “religione civile”, fatta di giuramento dei presidenti sulla Bibbia ed espressioni tipiche come “God bless America”, “God bless You”. Fino ad oggi questo contenitore è riuscito ad abbracciare personalità diversissime tra loro, da Jimmy Carter a Ronald Reagan. “Tutto si complica con Donald Trump”, a tal punto da porre “un problema di coscienza: come possiamo noi pregare per il presidente, accettare la sua retorica pubblica quando il presidente si fa portatore di un’agenda così divisiva e controversa sul piano dei valori fondamentali”. L’America oggi appare come “una mela spaccata in due”. Alle prese con una conflittualità che esplode “in un periodo in cui, nella fisiologia della politica americana, si dovrebbe vivere la honeymoon (luna di miele, ndr)”. Naso spiega: “Al di là di come uno avesse votato, nei sei mesi successivi alle elezioni del presidente, le asprezze della campagna elettorale venivano messe da parte e tutti unitariamente si lavorava per il bene del Paese. Questa fisiologia si sta rompendo con Donald Trump”.
Momenti di frattura tra le Chiese e l’amministrazione ce ne sono stati a centinaia nella storia recente di questo Paese. Un esempio è quando George Bush senior dichiarò guerra in Iraq. Fu una decisione che provocò l’immediata reazione del presidente della Chiesa metodista unita americana che la criticò in modo aperto e plateale. Anche il National Council of Churches ha criticato in varie occasioni le politiche dell’amministrazione, ma “tutto questo – fa notare Naso – era in riferimento ad aspetti specifici di una azione politica. Qui invece c’è un problema legato alla personalità e alla politica annunciata dal presidente. E da questo punto di vista credo che l’America andrà seguita non soltanto nella sua dimensione politica ma anche nella dinamica religiosa”.
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