La Cina, la via della seta, e la conquista finanziaria del mondo
Il vantaggio che sembra avere la Cina sull’Occidente tutto orientato alla finanza è di poter giocare sul lungo termine, senza preoccuparsi troppo del ritorno immediato di utili. Anche nell’agosto 2015 il mondo tremò per la svalutazione dello yuan, la moneta della Repubblica popolare; si cominciò a parlare di indebolimento strutturale cinese, con forti preoccupazioni per le economie occidentali. Ma a fine 2015 si viene a scoprire che se tempesta c’è stata, era in un bicchier d’acqua: le due principali Borse cinesi (Shanghai e Shenzen) hanno chiuso l’anno in attivo, Shanghai del 9% e Shenzen, il laboratorio del capitalismo alla cinese, addirittura del 63%.
Le perdite di inizio d’anno sui listini delle principali Borse della Cina popolare (Shanghai e Shenzen) hanno provocato cadute a catena nelle piazze finanziarie europee e americane, e seminato altre ondate di preoccupazione tra gli investitori di tutto il pianeta. Ma gli indicatori negativi delle piazze cinesi sono anche il segno molto concreto di “integrazione” di parte del sistema finanziario della Repubblica popolare nella dimensione “globale” che la Cina ha deciso di raggiungere. Nel 2016 (9 settembre) ricorrono i primi 40 anni dalla morte di Mao Zedong; e le riforme avviate dal suo successore Deng Xiaoping hanno cambiato in modo radicale il “Regno di Mezzo”. Ma probabilmente si tratta di un cammino appena cominciato. La Cina, diventata “fabbrica del mondo”, è oggi anche azionista nei principali “trust” occidentali, e creditore privilegiato dei nostri debiti pubblici.
Il vantaggio che sembra avere la Cina sull’Occidente tutto orientato alla finanza è di poter giocare sul lungo termine, senza preoccuparsi troppo del ritorno immediato di utili. Anche nell’agosto 2015 il mondo tremò per la svalutazione dello yuan, la moneta della Repubblica popolare; si cominciò a parlare di indebolimento strutturale cinese, con forti preoccupazioni per le economie occidentali. Ma a fine 2015 si viene a scoprire che se tempesta c’è stata, era in un bicchier d’acqua: le due principali Borse cinesi (Shanghai e Shenzen) hanno chiuso l’anno in attivo, Shanghai del 9% e Shenzen, il laboratorio del capitalismo alla cinese, addirittura del 63%. E questo malgrado i pesanti costi che l’operazione sulla moneta ha avuto sugli investitori di mezzo mondo e sui 90 milioni di risparmiatori cinesi.
Nella strategia disegnata dal presidente Xi Jinping e dal suo gruppo dirigente la posizione finanziaria è solo uno dei tasselli del cammino che porta a una dimensione economica mondiale della Repubblica popolare.
È operativa del 25 dicembre 2015 la Banca per gli investimenti in infrastrutture per l’Asia (Biia), fortemente voluta dalla Cina e che dovrà finanziare le grandi opere che mancano allo sviluppo del continente: ferrovie, autostrade, gasdotti, telecomunicazioni ecc. Il capitale iniziale è di 100 miliardi di dollari (la Cina, primo azionista, ne ha impegnati 30, l’India 8 e la Russia 6). Nel capitale della Banca sono presenti 57 Paesi, e anche i grandi Stati occidentali: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna; oltre a Filippine, Australia e Corea del Sud. Gli Stati Uniti non avrebbero voluto questa operazione, che riduce l’influenza delle vecchie istituzioni bancarie globali del dopoguerra (Banca Mondiale, Fondo Monetario) e di conseguenza il controllo americano. L’ingresso degli Europei è invece una grande opportunità di lavoro e investimenti: si considera infatti che la Banca potrebbe movimentare finanziamenti per 8mila miliardi di dollari nei prossimi 5 anni.
E non si può dimenticare che è in funzione dal 2014 la nuova Banca mondiale per lo Sviluppo che vede come soci fondatori i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): le potenze emergenti che chiedevano una riforma del Fondo monetario internazionale e che non furono accontentate – di qui la decisione di procedere anche senza l’Occidente. Per la prima volta i grandi scambi e finanziamenti strutturali avverranno (la Banca è operativa dal 2016) avendo come moneta di riferimento non il dollaro ma altre divise. E questo vale anche per il petrolio, che da 70 anni viene scambiato esclusivamente tramite la moneta americana (e il cui prezzo, dunque, è agganciato alle sue variazioni di valore).
Le nuove istituzioni economiche sovranazionali non escludono, per altro, la politica delle “partnership” con singoli Stati e imprese. L’impegno fuori dai confini è anche, per la Cina, la ripresa dell’immagine della “via della seta”, nel suo duplice itinerario terrestre e marittimo. L’Italia è in prima fila, in questa “campagna acquisti” cinese. La People’s Bank of China, la più grande banca del mondo, possedeva, nel 2014, il 2% di Fiat-Fca ma anche quote analoghe, intorno al 2%, di Eni, Enel, Telecom: cioè qualcosa di più e di meglio delle aziende vinicole in Piemonte e in Toscana, o dell’acquisizione del marchio della moda Krizia. L’Italia è il Paese ideale, secondo gli investitori cinesi, per penetrare in Europa: perché la liquidità cinese è disponibile proprio quando qui essa viene a mancare. E i soldi si “scambiano” con posti nei consigli d’amministrazione. Il rapporto qualità-prezzo è favorevole,
come ha ricordato, in un’intervista a “Repubblica”, il presidente della Fondazione Italia-Cina, Cesare Romiti, già presidente di Fiat Spa con Giovanni Agnelli. Per rimanere nel campo dell’automotive, da tempo le imprese cinesi lavorano con le aziende dell’indotto torinese dell’auto, che hanno dovuto inventarsi nuovi spazi di mercato dopo il progressivo ritiro di Fiat dall’area metropolitana torinese.
“L’uomo che amava la Cina” è la biografia di Joseph Needham, l’inglese che fu uno dei pionieri della scoperta della Cina nel XX secolo, e si conclude con l’immagine di un messaggio che si trovava a Jiuquan, impresso su un gigantesco tabellone all’ingresso della città. Un testo scritto in enormi ideogrammi scarlatti e a caratteri latini cubitali, in cinese e in inglese. II messaggio dice, semplicemente: “Senza fretta, senza paura, conquistiamo il mondo”.
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