La formazione professionale jolly per il Sud
Paola Vacchina, presidente nazionale di "Forma", l'associazione di enti di formazione che si rifanno alla dottrina sociale della Chiesa: "Occorre costruire un solido sistema di istruzione e formazione professionale nel Mezzogiorno, previsto dalle leggi in vigore dal 2010, ma che è ancora un 'fantasma' nelle regioni del sud". Basta con il finanziamento a pioggia a corsi e corsetti.
“Una buona idea sarebbe quella di smettere di finanziare ‘corsi e corsetti di formazione e orientamento’, per concentrarsi su poche priorità condivise, semplici da comunicare ai giovani e alle loro famiglie. Ciò per costruire un solido sistema di istruzione e formazione professionale nel Mezzogiorno, previsto dalle leggi in vigore dal 2010, ma che è ancora un ‘fantasma’ nelle regioni del sud”: è questa la reazione di Paola Vacchina, presidente nazionale di “Forma”, l’associazione di enti di formazione che si rifanno alla dottrina sociale della Chiesa tra cui Acli, Coldiretti, Confap, Salesiani, Mcl, Cif, quando nel pieno dell’estate appena trascorsa è stata rilanciata da alcuni giornali l’accusa che i “corsi professionali” del Fondo sociale europeo (Fse) hanno sprecato 7,4 miliardi di euro nel Sud. L’attacco al mondo della formazione non è nuovo. “Il problema è che, quasi sempre, si spara nel mucchio - dice Vacchina - senza distinguere se si parla in generale di fondi strutturali europei, oppure del sistema della istruzione e formazione professionale”.
I corsi Fse col 22% di “job entries”. La polemica è partita in pieno agosto con la ripresa sulla stampa nazionale di uno studio de “lavoce.info” dal titolo “Il disastro dei fondi strutturali europei”, a firma di Roberto Perotti (docente università Bocconi) e Filippo Teoldi (ricercatore). Il quadro presentato è allo stesso tempo grandioso (per le cifre in gioco) e sconfortante. Nel periodo 2007-2012 - dicono gli studiosi - sono stati finanziati in Italia circa 500mila progetti di formazione di vario tipo, per una spesa di 7,4 miliardi di euro, “eppure a tutt’oggi nessuno sa quali tipologie di progetti sono meglio di altre e se vale la pena attuarli”. Si è trattato per lo più di progetti brevi, di pochi mesi di lezioni, sui più svariati temi (dalla ceramica all’elettronica, al design, alla cucina, all’assistenza, al management del turismo ecc.). Nei 6 anni considerati sono state rilasciate circa 1 milione di qualificazioni ad altrettanti “allievi” più o meno estemporanei e le “job entries”, cioè l’accesso a un lavoro nei 12 mesi successivi sono state 222mila (il 22% dei partecipanti, che hanno svolto un lavoro di almeno un mese nell’anno seguente al corso). È chiaro che di fronte a un risultato del genere, modesto e alquanto aleatorio, costato per ciascuno dei 222mila “occupati” ben 33mila euro, hanno ragione quanti si pongono la fatidica domanda: i fondi dell’Unione europea e dello stato italiano, che cofinanzia tali corsi al 50%, sono spesi bene? Oltretutto, fanno notare i due studiosi, non vi sono dati certi per i programmi operativi delle regioni Basilicata, Calabria, Campania, Abruzzo, Molise, Sicilia, Sardegna e Puglia. Come a dire che proprio le regioni che sono oggetto della maggiore attenzione da parte del Fondo sociale europeo sono quelle che non sono in grado di rendicontare e dire esattamente come è andata, e se il gioco valeva la candela.
Come reagisce la presidente Vacchina di fronte a questi dati? Anzitutto mette in chiaro cosa sia la “istruzione e formazione professionale” (IeFp) e cosa la differenzi da altri corsi che ricevono sostegno dal Fse. Per IeFp, anche essa in parte co-finanziata dal Fondo sociale europeo, si intende l’insieme di centri e istituti che offrono corsi triennali e quadriennali, a 316mila giovani ogni anno dei quali 48mila stranieri. Tra di loro, 131mila frequentano i centri di formazione professionali “accreditati” soprattutto al nord Italia, mentre 185mila sono iscritti agli istituti professionali statali, soprattutto nel centro e sud Italia. Gli esiti occupazionali di questi corsi sono ben diversi da quelli del Fse di cui si diceva più sopra: al nord, il 65% dei ragazzi dei Cfp trova lavoro, un po’ meno al sud, comunque con giovani che per circa il 50% entro 3 anni riescono a iniziare ad esercitare una professione utile e consolidata tra le 22 qualifiche professionali riconosciute . “La formazione regionale - sottolinea la presidente - ha recuperato una parte consistente dell’abbandono scolastico che da noi è ancora al 18%, ha attuato l’alternanza scuola-lavoro e favorito l’inserimento di giovani stranieri, che sono oltre il 20% del totale. I giovani che vengono nei nostri centri, anche i ‘neet’ tentati dal non fare nulla, scoprono il valore di imparare un mestiere vero. Voglio sottolineare che non è una scelta di ripiego, rispetto a proseguire gli studi nei licei. Invece si tratta di una formazione che valorizza il saper fare, che riconcilia con la società e offre un futuro concreto e di soddisfazione”.
Perché nel Mezzogiorno è quasi “scomparsa” la Fp? Il punto è allora di proseguire sulla strada intrapresa, sostenendo la formazione professionale così come fanno altre nazioni con successo (Germania e paesi nordici in primis) e gestendo con più accortezza le ingenti somme messe a disposizione dal Fondo sociale europeo per i corsi brevi, che comunque possono offrire un valore aggiunto. “La progressiva scomparsa dei centri di formazione professionale nel Mezzogiorno è uno dei fattori associabili agli alti tassi di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile specie al sud - ribadisce la presidente di Forma -. Proprio perché il Governo sta rimettendo in agenda le questioni irrisolte del Mezzogiorno in questi giorni - dice Vacchina - il mancato sviluppo del sistema di istruzione e formazione professionale dovrebbe essere un argomento da mettere subito a tema come una delle priorità irrinunciabili su cui far convergere i mille rivoli dei fondi strutturali di questo settennio”.
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