La povertà a Londra c’è, ma non si vede. La condanna: “Se non lavori è colpa tua”
La condizione di bisogno non riguarda solo gli immigrati, ma anche i britannici. "I, Daniel Blake”, il film di Ken Loach vincitore della palma d'oro a Cannes, pone l'attenzione proprio sui cavilli che talvolta ostacolano il corretto funzionamento del welfare. Londra finisce per essere percepita come lo specchio di un benessere uniformato, eppure basta viverci un anno per chiarirsi le idee, basta uscire dal centro per aprire la mente a una nuova povertà: quella che costringe a vivere e lavorare solo per pagare l'affitto.
Se nell’immaginario giovanile il Regno Unito è visto come una chimera, Londra è senza dubbio percepita come la città in cui è “impossibile” fallire. Non tanto per una realtà oggettiva, quanto per il sentimento di stabilità di cui si fa portavoce l’immigrato: la felicità è lo stipendio garantito, se non lavori la colpa è tua. Peccato che lo straniero immigrato spesso ometta di essere un worker, e cioè un lavoratore occasionale con un contratto “a zero ore” a cui il datore di lavoro non è tenuto a offrire turni. Verrebbe da pensare che la condizione del “trapiantato” sia la sola a essere complessa e che, con il passare del tempo e l’acquisizione della lingua, diventi facile integrarsi nel perfetto sistema britannico. Eppure, anche gli inglesi sono spesso soggetti a contratti occasionali, possono provare la povertà ed essere guidati da un sistema non sempre perfetto. “I, Daniel Blake”, il film di Ken Loach vincitore della palma d’oro a Cannes, pone l’attenzione proprio sui cavilli che talvolta ostacolano il corretto funzionamento del welfare: un falegname cinquantanovenne è costretto ad abbandonare il suo lavoro dopo numerosi attacchi di cuore; il welfare state che dovrebbe garantirgli l’employment and support allowance, un sussidio per chi è incapace di lavorare a causa di malattia o disabilità (pari a 109,30 sterline a settimana), lo ritiene invece meritevole solo di una jobseeker’s allowance, un compenso settimanale di 73,10 sterline che presuppone, per giunta, la ricerca di un nuovo lavoro attraverso prove documentate. Mettendo da parte Londra, dove il prezzo degli affitti è doppio rispetto alla media nazionale, diventa difficile pensare a una vita dignitosa anche nel resto del Regno Unito, se si hanno a disposizione unicamente cifre modeste. Il turista che si ritrova a passeggiare per il centro di Londra – e spesso la capitale è considerata erroneamente il Regno Unito – non si accorgerà di queste note stonate e avvertirà un benessere generalizzato, opera di giovani in giacca e cravatta e donne in tailleur. Eppure, la povertà è spesso dietro l’angolo: secondo l’Office for National Statistic nel 2014 il 6.5% della popolazione del Regno Unito era in povertà persistente, l’equivalente di circa 3,9 milioni di persone, intendendo per povertà persistente quella condizione per cui le risorse economiche di un individuo sono pari al 60% in meno della media nazionale nell’anno corrente e nei due precedenti.
Interessante notare che il tasso di povertà per le donne è risultato più alto dell’1,5% rispetto a quello degli uomini e che i single provano più raramente questa condizione se paragonati a un nucleo familiare composto da due adulti. Tra il 2011 e il 2014 il 32,5% della popolazione del Regno Unito ha provato la povertà almeno una volta, così come il 43% di chi ha lasciato gli studi prima di aver conseguito un titolo riconosciuto (percentuale doppia di chi invece ha raggiunto la laurea). Il ricorrere al benefit spesso non rappresenta la soluzione: la fascia d’età più colpita da povertà è quella over 65 che, se non dispone di una pensione privata, avrà diritto a 119,30 sterline a settimana e che nella maggior parte dei casi non sarà neppure in grado di richiedere sussidi utilizzando internet (come una casa popolare o la riduzione del canone televisivo). Leggenda narra che ci sono generazioni di non lavoratori che vivono come parassiti, attingendo per somma di benefit al massimo che lo Stato può offrire e nuovi bisognosi che provano l’umiliazione nel dover richiedere aiuti. Basta leggere uno dei forum on line per avere un quadro chiaro sulle posizioni rispetto al welfare, ma quello che forse non emerge così chiaramente è la politica di un certo tipo di televisione che pone l’accento sulla meschinità dell’essere povero: nelle più svariate fasce orarie, spesso in prima serata e poi in replica nelle ore notturne, si possono incontrare programmi come Benefits Britain: life on the dole (interessante come specifichino “la vita nell’elemosina”) o How to get a council house (“come ottenere una casa popolare”) o Benefits Brides (“spose che si avvalgono del sussidio). I titoli che a prima vista sembrerebbero una guida per aiutare il pubblico a scoprire come raggiungere certi sussidi, nascondono un giudizio, neanche troppo velato, sulla categoria di coloro che si avvalgono del benefit: persone che cercano un espediente per non lavorare. Londra finisce per essere percepita come lo specchio di un benessere uniformato, eppure basta viverci un anno per chiarirsi le idee, basta uscire dal centro per aprire la mente a una nuova povertà: quella che costringe a vivere e lavorare solo per pagare l’affitto.
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