Ai bordi della cronaca
Non è la stessa sabbia
Un reportage dal deserto africano e le spiagge d’agosto
“Ma non è quello che ti soffoca: è il pianto collettivo contemporaneo di decine di bambini, il pigolante urlo del dolore assoluto. Davanti proprio all’altro lato della strada, non puoi crederci, c’è la sede della Croce rossa, accanto il commissariato centrale di Agadez”.
Non soffoca – scrive Domenico Quirico in un reportage apparso in questi giorni sul giornale di cui è inviato speciale – “l’aria sporca, purulenta, dolciastra, putrefatta e infantile” del cortile dove con false madri sono raccolti molti bimbi per essere caricati sui camion che dal Niger attraverseranno il deserto per arrivare ai barconi del Mediterraneo.
Quirico ha vissuto uno di questi viaggi della disperazione che inizia a Niamey, capitale del Niger, raggiunge Agadez, continua in Libia e prosegue sulle carrette del mare. Lo descrive con quella maestria professionale che trascina i lettori accanto ai migranti ammassati sui pick up che corrono nel Sahara.
Forse sono notizie che non si vorrebbero leggere durante le ferie ma se non ci fossero, se non venissero lette, la tragedia che si sta consumando in Africa subirebbe un altro affronto.
I camion corrono sulla sabbia e il giornalista, seduto accanto ai disperati, commenta: “Ci scrutiamo nella luce crudele come sorpresi di trovarci in tanti. E nel nostro guardarci resta sospeso l’interrogativo del giorno che inizia. E se la vostra forza fosse questa forza d’animo, ovvero il coraggio di non figurarsi in modo diverso il vostro destino?”.
Domanda rivolta ai compagni di viaggio nel deserto e ancor più a quanti assistono a questi scempi che spesso coinvolgono i bambini.
Al fatalismo innocente delle vittime si aggiunge quello dell’indifferenza, del voltare lo sguardo da un’altra parte.
La storia è piena delle tristi conseguenze di queste distrazioni e neppure un reportage come quello di Quirico riesce sempre a trasmetterne l’appello.
Eppure sarebbe terribile se di loro non si scrivesse e non si parlasse, se i giornalisti smettessero di scrivere, raccontare, documentare.
“Vedi! Siamo arrivati Migrante, finalmente tu e io, insieme, ad Agadez, la città di tutti i traffici, il crocevia di ogni cosa, l’inizio della speranza, forse, il tuo golgota di sabbia, certamente. Sì. Siamo arrivati in tempo per lunedì il giorno del Grande Convoglio. È stato un lungo viaggio, due giorni per salire da Niamey. Tanto troppo”.
Così scrive Quirico lasciando intravvedere tra le righe un filo di un’umanità che attrae, inquieta e denuncia.
Diventa voce di chi non ha voce.
Ai bordi della cronaca di “1000 km di paura” nel deserto del Niger, il silenzio dell’angoscia non sfugge e accompagna una sofferenza immane che continuerà fino alle sponde del Mediterraneo e oltre.
Torneranno le domande sulle responsabilità politiche ed economiche, sulle inconsistenze culturali di gran parte dell’opinione pubblica.
La cronaca, nel narrare queste tragedie ha il compito d’inquietare.
In tutti gli uomini pensanti, credenti e non credenti, potrebbe far rinascere domande su Dio.
Potrebbe anche solo scuotere la coscienza perché esca dal torpore o dall’alibi.
Sarebbe già un appello a non guardare dall’altra parte.
Difficile impresa, molti vorrebbero staccare la spina per riposare e non avere pensieri.
Desiderio raccolto da qualche hotel che ha messo alla porta giornali, radio e tv perché, con le loro notizie fastidiose, non turbino il meritato relax.
La sabbia del Sahara, dove corrono camion carichi di disperati, cosa ha a che fare con la sabbia degli ombrelloni quando il riposo si scolora nel non pensiero?
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