Proliferano le dittature in un mondo sempre meno libero
Autocratici, oppressivi, dispotici, tirannici. La morte di Fidel Castro, il “lìder maximo” della rivoluzione cubana, icona del comunismo più ortodosso e della più intransigente retorica antimperialista, ripropone il tema delle dittature nel mondo, degli autoritarismi e dei totalitarismi, di cui la storia dell’umanità è sempre stata ricca. Ieri come oggi. Si tratta di poteri personali, in alcuni casi ultradecennali anche perché tramandati di padre in figlio, non legittimati da nessuna elezione democratica degna di questa nome, nati sull’inganno, sull’uso della violenza più sanguinaria, della tortura e sulla repressione delle libertà fondamentali. Oggi più della metà della popolazione globale vive in Paesi non liberi e parzialmente liberi. Complice anche la connivenza di tante nazioni cosiddette democratiche.
Per uno che va molti ne restano. I numeri dei satrapi in azione oggi nel mondo non lasciano certo tranquilli. Secondo l’ultimo rapporto “Freedom in the world 2016”, redatto dall’ong “Freedom house” e riferito al 2015, su 195 Paesi presi in esame solo 86 (44%) sono dichiarati “free” (liberi), 59 (30%) “partly free” (parzialmente liberi) e 50 (26%) “not free” (non liberi). Per il decimo anno di fila il mondo è meno libero. Rispetto al 2014, secondo l’organizzazione non governativa con sede a Washington, i Paesi in cui si sta peggio sono ben 72. Tradotto: più della metà della popolazione globale vive in Paesi non liberi e parzialmente liberi.
Medio Oriente e Nord Africa sono le regioni peggiori seguite da vicino dall’Eurasia. A conti fatti l’85% della popolazione mediorientale vive sotto dittatura. In questa non invidiabile classifica dei Paesi “non liberi” spicca al primo posto la Siria, insieme a Tibet, Somalia, Corea del Nord, Uzbekistan, Eritrea, Turkmenistan, Repubblica centrafricana, Arabia Saudita, Guinea equatoriale, Sudan e Sahara occidentale. Nel novero dei peggiori 50 anche Cuba, Russia, Bielorussia, Cina, Tailandia, Iran, Egitto.
Di padre in figlio. Si potrebbe riassumere così la parabola di alcuni dittatori in auge in questi anni. Il più noto, anche per le vicende belliche che dal 2011 stanno devastando il Paese, è Bashar al-Assad, presidente siriano, in carica da giugno del 2000, quando prese il posto del padre, Hafiz al-Assad, al potere per tre decenni, passato alla storia per una serie di massacri, come quello di Hama (1982) bombardata per un mese, con un bilancio (stimato) di circa 30mila vittime. Stessa durezza usata dal figlio per reprimere le proteste di piazza scoppiate nel 2011, sull’onda delle primavere arabe. Il conflitto che ne è derivato ha visto fino ad oggi oltre 6 milioni di sfollati interni, più di 4 milioni di rifugiati, e centinaia di migliaia di morti. L’intervento di Paesi stranieri come Russia e Iran al fianco di Assad permette al regime di fronteggiare sia i ribelli sia lo Stato islamico. Gravi violazioni dei diritti umani vengono commesse sia dall’una sia dall’altra parte. In spregio alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite continuano a emergere notizie di torture, violenze e abusi sui detenuti nelle carceri siriane. Le ultime elezioni – vinte dal Presidente – risalgono al giugno del 2014, in pieno conflitto, con i seggi aperti solo nelle zone controllate dal Governo. Per mostrare la regolarità del voto, negata dai maggiori stati democratici, Assad aveva invitato osservatori da paesi amici. Tra questi quella Corea del Nord guidata da Kim Jong-un, dittatore classe 1983. Anche lui guida ereditaria. È in sella dal 18 dicembre 2011, giorno successivo alla morte del padre Kim Jong-il, che ancora oggi conserva il titolo di Presidente Eterno. Secondo le principali organizzazioni per i diritti umani nel Paese asiatico sarebbero almeno 100mila le persone costrette ai lavori forzati perché ritenute oppositori e dissidenti politici. Crimini, torture ed esecuzioni efferate sono all’ordine del giorno del regime che ha indetto a luglio 2015 delle elezioni. L’affluenza è stata del 99,97% con la vittoria scontata di tutti i candidati pre-selezionati dal Partito dei lavoratori coreani (Kwp). Di fratello in fratello è invece il passaggio dei poteri in Arabia Saudita: dal re Abdullah al fratello Salman bin Abdulaziz, dal 23 gennaio 2015 settimo Re dell’Arabia Saudita. Il re Abdullah, padre di 25 figli, uno dei monarchi più ricchi del mondo, ha lasciato un patrimonio di circa 21 miliardi di dollari e un Paese dove restrizioni dei diritti e discriminazioni sono la regola. Nonostante nel 2015 abbiano, per la prima volta, potuto votare e essere elette nei consigli comunali, le donne sono discriminate. Nel Paese sono vietati i partiti politici, la monarchia esercita il controllo dei media (vietato l’accesso a oltre 400mila siti ritenuti immorali). Nel 2015 le condanne a morte eseguite sono stimate in oltre 150.
Leggi ad hoc. Chi non può vantare linee di successione del potere è il presidente del Turkmenistan, il dentista Gurbanguly Berdymukhamedov, che tuttavia ha fatto approvare una serie di emendamenti alla costituzione che gli permetteranno di prolungare il suo mandato a sette anni da cinque e la cancellazione del limite di età per il presidente, che era fissato a 70 anni. Non male per uno che curava i denti al suo predecessore, Saparmurat Niazov, al quale è succeduto nel 2006. Entrambi sono onorati nella capitale, Ashgabat, con statue d’oro. Gli oppositori sono messi a tacere con detenzioni forzate, torture, restrizioni ai movimenti, le minoranze etniche e religiose discriminate. Non è da meno Teodoro Obiang Nguema, da ben 37 anni presidente della Guinea Equatoriale. Mandati presidenziali accaparrati calpestando molte leggi costituzionali. Paese ricco di riserve di petrolio, i proventi vengono incassati direttamente dal presidente Obiang che così può vantare un patrimonio di 600 milioni di dollari. Si stima che il 60% degli abitanti della Guinea Equatoriale viva con meno di 1 dollaro al giorno. Attivisti politici e difensori dei diritti umani vengono sottoposti a torture, vessazioni, arresti arbitrari e detenzioni. Una lista di dittatori che non si ferma certo qui e che riporta tristemente alla mente quanto affermava sir John Emerich Edward Dalberg-Acton, meglio noto come Lord Acton: “con il potere assoluto anche a un asino risulta facile governare”.
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