Quale futuro industriale?
Così l'Italia prova a recuperare il terreno perduto.
Non si vive di rendita, almeno per quanto riguarda le economie dei vari Stati. Germania e Italia sono due tra i Paesi più industrializzati del mondo, con valide e possenti strutture manifatturiere: più grandi e concentrate al di là delle Alpi, più piccole e frastagliate qui. Ma quel che si produce oggi, non è detto che andrà bene pure domani, soprattutto in un’epoca di grandi e repentini cambiamenti tecnologici. Per questo ci vuole ricerca, innovazione, cambio di passo. Per questo bisogna mettere oggi le basi di quel che saremo domani. E qui mettiamo a confronto le due esperienze – quella tedesca e quella italiana – di programmazione del proprio futuro industriale.
La Germania destina il 2,8% del proprio Pil in spese di ricerca e di sviluppo, ma non lo fa con finanziamenti a pioggia o senza un progetto ben preciso. I tedeschi concentrano le risorse su due enormi infrastrutture che si occupano appunto di innovazione a braccetto con le industrie locali: la Max Planck, che si suddivide in 83 filiali, oltre 20mila dipendenti più della metà dei quali sono scienziati; riceve dallo Stato qualcosa come 1,8 miliardi di euro l’anno, oltre alle risorse che arrivano dal settore privato. Quindi la Fraunhofer Gesellschaft, migliaia di ingegneri e scienziati pagati per due terzi con risorse private con contratti per specifici progetti di ricerca, e per un terzo dallo Stato.
A questo strutturato sistema di innovazione, che mette in comune risorse pubbliche e private su progetti specifici, si aggiunge un sistema di formazione duale scuola-lavoro che prende lo stesso nome di quello testé introdotto in Italia, ma agisce in modo opposto: qui si cerca (almeno al Nord) qualche istituzione pubblica che consenta ai ragazzi degli ultimi anni dei licei di passare in qualche modo il tempo previsto in presunta formazione sul campo – tenere aperto un museo altrimenti abbandonato, vedere come si fanno le fotocopie nei Comuni… –; lì i ragazzi vanno a lavorare sul serio e in particolare in quelle aziende più avanzate e innovative, quelle che poi maggiormente avranno bisogno di nuovo personale.
A tutto ciò si aggiungano specifiche politiche industriali che lo Stato crea, sempre in collaborazione con il mondo dell’economia. Quindi “Plattform Industrie 4.0”, che riunisce il meglio delle industrie teutoniche per discutere di quali siano le migliori strategie a lungo termine da intraprendere. Quindi High-Tech Strategy, che già da un decennio destina investimenti in ricerca e sviluppo nei settori delle biotecnologie, delle nanotecnologie, delle tecnologie dell’informazione e comunicazione. Il tutto è legato ad un sistema di leggi e di welfare che scoraggia il mantenimento di posti di lavoro a fine corsa e di professionalità non più spendibili, per orientare i lavoratori vecchi e nuovi verso quei rami di economia che stanno decollando o che vanno già bene.
L’Italia sta partendo solo ora, la politica industriale negli ultimi anni non è certo stata il nostro forte. Lo fa con la vecchia tecnica degli sgravi fiscali (super ammortamenti, crediti d’imposta, detrazioni fiscali). Insomma: care aziende, voi fate e noi vi aiutiamo. Non funziona granché – le piccole aziende hanno bisogno di ben altro –, dunque ci si sta muovendo pure nel solco tedesco: sette università coinvolte per creare “competence centers” che dovrebbero essere il punto d’incontro tra aziende e ricerca universitaria. Già ora (Torino, Veneto) qualcosa di buono si sta facendo; adesso si mette in corsa il meglio, e nel meglio spicca il fatto che da Pisa in giù ci siano nella partita solo Bari – buon Politecnico – e Napoli. Roma assente, isole non pervenute.
Ah, ne stiamo parlando, discutendo, valutando. Il bicchiere mezzo pieno è che finalmente si parte nella corsa all’economia 4.0. Quello mezzo vuoto è che Germania e Francia sono già là in fondo.
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