Stati Uniti cresciuti con Obama. Il mondo, però, è in fiamme
Nell'ultimo discorso sullo Stato dell'Unione il presidente degli Stati Uniti ha elencato i successi della sua presidenza, a partire dal rilancio dell'economia. Ma ai controversi risultati sul piano dei diritti si aggiunge una politica estera da molti giudicata fallimentare: gli Usa crescono, il mondo è in fiamme. Il parere dei docenti di due università cattoliche americane.
Un ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione” in cui ha vantato il risultato di una nazione “più solida” e in forte ripresa economica. Con una politica impegnata contro le discriminazioni e la lobby delle armi. Ma quella di Barack Obama appare fino a questo momento, nell’ultimo anno di attività (a novembre sono previste le elezioni per la scelta del successore), una presidenza bifronte. Sostanzialmente positiva sul versante interno, benché assai discutibile sul piano dei diritti individuali e sociali, meno efficace in politica estera: nel bene e nel male gli Stati Uniti non sono più il “gendarme del mondo”. Ma è proprio così? Uno sguardo più attento mette in luce dettagli importanti e qualche sorpresa. Quali sono stati i meriti e i demeriti di Obama? Il parere di alcuni intellettuali di due università cattoliche americane.
Politica interna. “Quando Obama ha giurato come presidente”, spiega Michael Genovese, professore esperto di White House Studies e direttore dell’Istituto per gli studi sulla leadership alla Loyola Marymount University di Los Angeles, “aveva una lunghissima lista di cose da fare, alcune urgentissime. È riuscito ad avviare una ripresa economica negli Usa che via via è divenuta crescita vigorosa, ha salvato l’industria dell’auto, ha portato a casa una controversa riforma sanitaria che ha aumentato il numero di americani assicurati, ha preso qualche timida ma utile decisione in termini di immigrazione e misure anti-armi”. Evan Gerstmann, professore di Scienze politiche ed esperto di costituzione americana sempre al Loyola Marymount University di Los Angeles, aggiunge: “Bisogna tornare per un momento alla fine del 2008, perdevamo 750mila posti di lavoro al mese, ripeto al mese! Le politiche economiche di stimolo all’economia ci hanno permesso di dimezzare la percentuale di disoccupazione di quel periodo nero. Il problema è che i salari non sono cresciuti”. Il divario tra i ricchi e i poveri è in realtà aumentato negli ultimi otto anni, e a stare peggio economicamente sono paradossalmente gli afroamericani di cui Obama è divenuto un’icona.
Fronte internazionale. In politica estera la maggioranza degli osservatori concorda nel dire che si poteva fare di meglio. Varie voci parlano anzi di “fallimento”. Il Medio Oriente è sempre più instabile, con una manciata di Stati in cui regna l’anarchia, un ambiguo Iran sempre più egemonico nella regione, la minaccia dell’Isis divenuta terribile realtà anche in Europa, la Russia sempre più aggressiva e sprezzante. Gerstmann sottolinea però che l’Isis e la Siria sono un rebus sui quali nessuno sembra avere una soluzione e invece “l’uccisione di Osama Bin Laden, l’accordo sul nucleare con l’Iran e quello sul clima di Parigi” sono “chiare vittorie della presidenza Obama”. Genovese segna nella colonna delle politiche azzeccate “l’apertura verso Cuba”, obiettivo raggiunto “anche grazie all’intervento del Vaticano” e inserisce in quella dei fallimenti le “non decisioni mediorientali”: “la Libia è nel caos, la Siria è messa ancora peggio”,“la risposta all’Isis è stata incredibilmente flemmatica, e forse volutamente, per non dare l’impressione di voler attaccare la fede musulmana”.
“Asia pivot”. L’aspetto, però, di cui si parla meno della politica estera di Obama è forse stata la risoluta azione dell’inquilino della Casa Bianca sul fronte asiatico. “Arrivato alla presidenza, Obama, ha subito cercato di spostare il baricentro della politica dal Medio Oriente all’Asia”, spiega Andrew Yeo, professore associato di Scienze politiche alla Catholic University of America di Washington, D.C. “E ci è inizialmente riuscito, si pensi all’importante Partenariato trans-Pacifico”, un trattato siglato da dodici Paesi dell’area pacifica e asiatica. “Successivamente – continua Yeo – la crisi ucraina e le problematiche mediorientali lo hanno un po’ distolto dall’Asia”. E come valuta il suo dialogo con la Cina, professor Yeo? “Il segnale positivo è stato il recente accordo sul clima. Ma sotto il profilo geopolitico le tensioni sono aumentate. Pechino è divenuta più assertiva militarmente e vuole dominare le vie marittime; questo innervosisce Paesi tradizionalmente sotto l’influenza americana come Corea del Sud, Vietnam e Filippine”.
Attenuante dell’iper-polarizzazione. Molti dei progetti incompiuti di Obama, come una vera riforma del sistema migratorio, sono delusioni spesso attribuite dai sui sostenitori a un ostruzionismo granitico dei Repubblicani pronti a cestinare persino le proposte più bipartisan. Gerstmann racconta un aneddoto: “Una volta Obama ha invitato i Repubblicani del Congresso alla Casa Bianca per una proiezione del film ‘Lincoln’; gli è stato risposto di no. Motivazione? Gli elettori non avrebbero capito”. D’altra parte questo oltranzismo, secondo Genovese, non è del tutto nuovo. “Si poteva ravvisare tra le file dei Democratici durante il secondo mandato della presidenza di George W. Bush e ancora prima”. In ogni caso, Washington “era chiamata la città del dialogo, oggi è la città delle barricate”.
“Mixed bag”. La presidenza Obama allora è una “mixed bag”, una borsa in cui si possono trovare cose buone e insuccessi. Finora ha fatto meglio in America che nel mondo, ma non ha trascurato il palcoscenico cruciale di questo secolo, l’Asia, e le relazioni con il suo ambizioso protagonista, la Cina. E poi, appunto, sono sul tavolo le frizioni con Mosca e i problemi eclatanti – umanitari, politici, ambientali – di vaste aree del Medio Oriente e dell’Africa. Ma questi grattacapi Obama li lascia in eredità al prossimo inquilino (o inquilina) della Casa Bianca.
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