Si torna al Vescovo maestro e giudice nel discernimento
Monsignor Pietro Maria Fragnelli, vescovo di Trapani e presidente della Commissione episcopale per la famiglia, i giovani e la vita della Cei: "Questa riforma stimola a guardare la realtà con sguardo pastorale". E ancora: "Si tratta di ripartire sempre dalle persone dedicando loro più tempo e inscrivendo il lavoro sulle carte in un percorso da compiere con chi è alla ricerca di verità".
Una Chiesa dalle porte aperte, vicina alla gente. La vuole Papa Francesco, e in questa direzione va anche la riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, che sembra privilegiare la dimensione pastorale rispetto alla logica “giudiziaria”, rispondendo così alla preoccupazione della “salvezza delle anime” richiamata due volte dal Pontefice nel Motu Proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus”. Processo più breve affidato al vescovo diocesano - in aggiunta a quello documentale attualmente vigente - nei casi di nullità del tutto evidente, fondato su un solo grado di giudizio, gratuità delle procedure. Le nuove norme entreranno in vigore l’8 dicembre. Per monsignor Pietro Maria Fragnelli, vescovo di Trapani e presidente della Commissione episcopale per la famiglia, i giovani e la vita della Cei, “questa riforma stimola a guardare la realtà con sguardo pastorale e rinnovata cura delle persone per aiutarle ad uscire dalle situazioni di incertezza. Lo chiede il Papa, con grande sollecitudine nei confronti delle famiglie e in particolare di quelle in difficoltà”.
Il Pontefice conferisce un ruolo centrale al vescovo, giudice tra i fedeli e garante dell’unità nella fede e nella disciplina…
“Gli strumenti giuridici che la Chiesa è periodicamente chiamata a rivedere e adeguare alle situazioni hanno una medesima, unica sorgente: solo a partire dall’unità della nostra fede si può ripensare la disciplina senza venir meno ai criteri di verità, giustizia, carità e misericordia che in Cristo convergono. La riforma vuole rendere evidente tale convergenza, coinvolge tutta la Chiesa locale e in primis il vescovo, chiamato ad una sorta di ‘conversione’, indispensabile per poi convertire anche la struttura giuridica ed ecclesiastica e arrivare infine alla conversione dei fedeli”.
Come vive personalmente questo nuovo carico di responsabilità?
“Aumenterà certamente il lavoro richiesto al vescovo e ai suoi collaboratori, ma quello che conta di più è l’aspetto qualitativo, lo stile dell’impegno. Si tratta di ripartire sempre dalle persone dedicando loro più tempo e inscrivendo il lavoro sulle carte in un percorso da compiere con chi è alla ricerca di verità, non solo sui propri sentimenti, ma anche e soprattutto sul proprio cammino di fede. Si torna al vescovo come maestro, ed anche giudice, inteso non in senso ‘punitivo’ bensì come colui che aiuta a fare discernimento. Quello che potrebbe sembrare soltanto un intervento di natura giuridica che agisce sul processo canonico è in realtà un grande intervento di natura pastorale e relazionale. Il Papa ci invita ad andare incontro senza pregiudizi alle persone in difficoltà e a sostenere e accompagnare nella carità e nella verità autentici percorsi di fede”.
Qualcuno ha affermato che la centralità del vescovo-giudice rischia di “clericalizzare” la procedura…
“Non si tratta di un giudice monocratico che avoca tutto a sé, bensì del pastore e padre che all’interno della diocesi, con l’aiuto dei suoi collaboratori, cioè nella collegialità, elabora percorsi di discernimento e matura le decisioni da assumere. Il discernimento è sempre un dono che passa attraverso un cammino ecclesiale, in un certo senso un metodo ‘sinodale’. Il Motu Proprio impiega questo termine con riferimento alla metropolia, ma anche all’interno della singola diocesi c’è una sorta di ‘sinodalità’ che rende più credibile il percorso verso la dichiarazione di nullità”.
Il Papa chiede al vescovo di offrire un segno della conversione delle strutture ecclesiastiche…
“Ne aveva già parlato nell’Evangelii gaudium, e per primo ha innestato un moto di conversione di queste strutture. Le Conferenze episcopali e i singoli vescovi hanno il compito di tradure questa conversione, oltre che nel rinnovamento degli strumenti a livello diocesano, in una chiamata al rinnovamento di mente, cuore e opere, sia per i loro collaboratori, sia per le persone che chiedono il giudizio della Chiesa. Il vescovo ha ovviamente una funzione discrezionale di guida ultima”.
Quanto tempo ci vorrà perché la riforma vada a regime e diventi operativa?
“È difficile fare previsioni. Per coglierne in pieno la ricaduta nelle diocesi e ‘attrezzarsi’ adeguatamente ci vorranno dei tempi, mi auguro non lunghissimi. Il mio auspicio è che questo ambito rientri organicamente nella pastorale familiare concepita non più come settore ma come realtà che percorre trasversalmente tutto l’agire della Chiesa”.
Il tema sarà nell’agenda del Consiglio episcopale permanente di fine mese?
“Certamente l’iniziativa del Santo Padre non potrà non essere oggetto di attenzione”.
Come cambierà la pastorale familiare?
“Occorrerà sicuramente incoraggiare una mentalità nuova e valorizzare la ministerialità della famiglia per l’accompagnamento delle famiglie in difficoltà, ma anche di quelle in costruzione. Bisogna allargare gli spazi: abbiamo famiglie con competenze culturali, spirituali e morali che possono incoraggiare e sostenere altre famiglie in difficoltà. Credo che proprio sulla pastorale familiare si giocheranno la scommessa e l’impegno più grande delle nostre diocesi. La famiglia cristiana porta in sé, pur nelle sue fragilità, la bellezza del matrimonio, solo che di questo matrimonio occorre una nuova comprensione e consapevolezza. La realtà ci chiede di pensare percorsi formativi nuovi all’interno delle nostre Chiese”.
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