Mons. Nunnari: i miei vent'anni da Vescovo
Intervista esclusiva all'Arcivescovo emerito di Cosenza - Bisignano, che a PdV racconta i momenti principali del suo ministero in Irpinia e a Cosenza.
Il prossimo 20 marzo monsignor Salvatore Nunnari, arcivescovo emerito di Cosenza- Bisignano, celebra i 20 anni del suo episcopato.
Vent’anni di episcopato sono un dono.
Sono un dono ma anche una responsabilità. Ho fatto il viceparroco per tanti anni, il parroco per 35 anni a una comunità non facile, ma bella. Non facile perché era una parrocchia che veniva fuori dall’orto di Reggio, con gli abitanti che arrivavano a scaglioni e la difficoltà dell’integrazione fra di loro e una qualche presenza di mafia. Aveva una chiesa baracca del 1910 edificata dopo il terremoto, quando gli abitanti erano 1000. Poi sono diventati 10 mila. I primi anni celebravo con una difficoltà enorme, in un solo capannone realizzavamo tutte le attività pastorale. Ma da quella parrocchia, negli anni, sono fiorite tante belle vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata, alla famiglia. Una comunità animata dai giovani. Loro sono stati la mia passione.
La parrocchia è stata una palestra per il suo futuro episcopato.
Il servizio episcopale di un uomo parroco per tanti anni, educato dalla sua gente. La ricchezza della presenza giovanile, ma anche delle belle famiglie che si formavano, per una comunità cresciuta nel tempo.
Poi arrivò la scelta del Papa, che la nominò Vescovo.
Quando mons. Mondello mi chiamò, il 19 gennaio 1999, per comunicarmi, commosso, la mia nomina a Vescovo, vide la mia resistenza. Gli dissi che preferivo restare parroco. Mi telefonò il nunzio, mi chiese perché non volessi accettare, se la destinazione di Sant’Angelo dei Lombardi fosse troppo difficile, ero legato alla mia gente, alla mia terra. Mi convinse ad accettare.
Così divenne Vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi – Conza – Nusco - Bisaccia
La mia Irpinia, una primavera. Il 20 marzo sono stato ordinato, l’1 maggio ho fatto l’ingresso. Non in Cattedrale, che era chiusa, insieme ad altre chiese, dopo il terremoto, ma nel bel santuario di Mater Santuario, dove c’era il gran santo, giovane, Gerardo Majella, che poi ho proclamato patrono delle gestanti.
Ha un legame particolare con mons. Mondello.
Mi è stato padre. Una delle grazie che ho ricevuto nella mia vita, è di aver avuto dei Vescovi santi, meravigliosi. Monsignor Ferro mi ha accolto in Seminario, mi ha ordinato prete, di cui ero, come mi scrisse – il mio diletto figlio -. Il mio padre spirituale fu San Gaetano Catanoso. Mi additò la strada della santità, avrei dovuto essere un prete santo. Porto sempre dentro la consapevolezza della mia debolezza, ma il Signore mi ha usato grazia.
È un cammino difficile anche per un Vescovo.
Le responsabilità sono tante. Per essere u uomo di governo c’è bisogno di tanto equilibrio interiore. La pastorale è composta di tre “P”, preghiera – prudenza – pazienza. Un Vescovo, come un parroco, è uomo di armonia. La Chiesa non si guida con le nostre furbizie, ma con queste virtù.
È stato più necessario utilizzare queste virtù in Irpinia o a Cosenza?
A Sant’Angelo, una piccola diocesi di 30 parrocchie, ho trovato alcuni problemi scaturiti dal terremoto precedente. Ce la siamo cavata, risolvendo diverse questioni spinose. Avevo tanta stima e affetto dal card. Ruini, presidente della CEI, che ci ha sostenuto nella ricostruzione.
C’è un luogo di spiritualità della diocesi di Sant’Angelo cui è più legato?
Il “Goleto”, una vecchia Abbazia rovinata che abbiamo riparato e ripristinato nel suo splendore. Poi c’è il Santuario di Mater Domini. Gli irpinati sono gente buona, dal cuore aperto, piagata ma non piagata. Lì ho passato la primavera della mia vita. Lì ho avuto una bella esperienza di fraternità sacerdotale.
Lei ha sempre aperto le porte della sua casa.
Quando il cuore è aperto, non è difficile aprire le porte di casa.
Divenne vescovo di Cosenza.
Quando penso al mio episcopato, lo penso con un disegno: la mitria e la croce.
A Cosenza c’è stata tanta croce.
Forse un po’ pesante all’inizio. I problemi, che tutti conosciamo, sono nati subito. Sono stati momenti duri. Una volta un Vescovo calabrese mi chiese se avessi mai avuto desiderio di scappare. Forse sì, ma di certo il crocifisso mi ha suggerito: ‘tu vai, io rimango’. La croce non va cercata, va accolta quando arriva. L’episcopato segnato dalla croce è come un giardino irrigato che produce frutto.
Quali i momenti principali della sua presenza a Cosenza?
Una grazia del mio episcopato a Cosenza sono state le tante vocazioni, ben 40. Abbiamo dato dei segni, fra i quali mi piace ricordare “Casa Nostra”, la casa dei poveri vicina a quella del Vescovo. Abbiamo aperto il Museo diocesano. Ma quello che è stato bello a Cosenza è stato il rapporto continuo con la gente, che ancora oggi incontro, che ancora oggi mi abbraccia. Non un incontro formale, ma umano, umanissimo, perché anche a Cosenza “il calabrese vuole essere parlato”.
La visita pastorale è stato un momento di incontro.
La visita pastorale è stato il centro. In questi momenti un Vescovo ha la consapevolezza della sua diocesi, la conoscenza dell’animo della sua gente. Ho visitato tutte le scuole, i consigli comunali, le realtà pastorali. E poi sapete cosa porto nel cuore?
Che cosa?
Il Signore ha raccolto le lacrime e le piaghe sono diventate feritoie. I santi hanno segnato il mio episcopato. Penso a madre Elena Aiello, diventata beata, a San Nicola Saggio, al beato Francesco Maria Greco, a Sant’Angelo d’Acri. Adesso speriamo che Arcangela Filippelli, la nostra Maria Goretti, venga presto riconosciuta quale bella testimone della fede in terra di Calabria.
La missione di Vescovo non termina con il Governo.
Ho finito di mandato, ma non la paternità che continua. Ora, la domenica, nella comunità di Sant’Antonio, a Rende, sono in famiglia. Celebro l’Eucarestia, il centro della mia vita, ma soprattutto dono l’abbraccio di Dio ai fratelli che si accostano per la riconciliazione. Lì viene gettato il male del mondo e accolto il perdono di Dio, che è Padre.
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